La sanità è il terreno più pratico per la sperimentazione dell’uguaglianza tra i cittadini. Nonostante si dimostra essere anche la “prima” nelle corruttele pubbliche e private, è quel pezzo di stato sociale necessario al benessere e la coniugazione più felice tra salute e inclusione.
A oltre quarant’anni dalla istituzione del Servizio sanitario nazionale, diritto sancito dall’art. 32 della Costituzione, sembra offuscato proprio quel complesso di norme voluto dai costituenti e disciplinato dal legislatore, per aver messo in discussione innanzitutto i princìpi che lo hanno ispirato della equità ed universalità. E il tempo storico del Covid 19 ha maggiormente acuito la distanza da quelle affermazioni, ha dimostrato tutta l’incapacità e l’inadeguatezza di un sistema che, in verità, si era smarrito ben prima della crisi pandemica.
Purtroppo anche i successivi princìpi costituzionali hanno interpretato la difesa della salute, quale elemento incomprimibile, all’interno del recinto soffocante delle compatibilità finanziarie dello Stato. Uno spaventoso arretramento quello che mette sullo stesso piano un bene primario e insopprimibile con i limiti di bilancio per il funzionamento complessivo di un paese.
Ad aggravare tali concetti vi è la “riduzione” ad accettare il Mes, ovvero il Meccanismo Europeo di Stabilità, per far fronte alla crisi del sistema sanitario italiano. Ossia contare su un prestito della UE per curare meglio i propri cittadini.
Il diritto alle cure sanitarie non solo viene messo in discussione da scelte di governo, sottraendo risorse ad un settore garantito, ma addirittura si pensa di sopperire con un prestito oneroso proveniente da un organismo sovranazionale, peraltro potenzialmente gravato, fino a prova contraria, da una “condizionalità” devastante da sopportare.
Per dirla più chiaramente: uno Stato non riesce a curare bene i suoi cittadini perché distrae le cifre da dedicare a ciò, chiede un aiuto economico per questa sua mancanza a una entità fuori dal paese e, peraltro, pagando anche gli insopportabili interessi di quel prestito. E non solo, sarà costretto a privatizzare strutture pubbliche perché questa entità straniera lo pretende. Una architettura istituzionale legittimata da chi la pratica, che non trova nessun riscontro nell’ordinamento preteso da quei repubblicani che oggi consentono a tutti noi di parlare, fare e scrivere.
La regionalizzazione del sistema sanitario ha fallito il rapporto paziente/territorio/cura della persona. Di fatto si è declassato e frantumato un diritto, spingendo lo stesso tra le onde di istituzioni che hanno inteso sacrificare la programmazione a vantaggio della mera gestione, e per molti versi facendole fiutare l’affare, legittimando un regime privatistico nel nome di un presunto efficientismo attraverso il sistema dell’accreditamento. Determinando, al contempo, la chiusura di ospedali, la riduzione di posti-letto e la razionalizzazione dei distretti sanitari di base.
A dimostrare questo naufragio è la concertazione tra Governo e Regioni oggi sulla cosiddetta fase 2, dove ognuno sembra andare per strade diverse e la sintesi definitiva sembra lontana da venire, ma anche ieri e prima del coronavirus. La destrutturazione scientifica della sanità regionale pubblica ha preteso affidarsi ad un privato che finisce per fare le stesse prestazioni proprie di quest’ultima, con un danno per il maggior costo. E all’utile aziendale troppo spesso si unisce la ruberia di talune infedeli figure pubbliche, direttamente in commistione con potentati economici che inquinano la difesa della salute collettiva.
Il punto di caduta più evidente è rappresentato dagli ospedali da campo dedicati alle terapie intensive per contrastare la pericolosità del virus. Da questo versante tanto il Sud quanto il Nord hanno offerto un quadro desolante e “utilmente” nullo. Se è vero che, nel frattempo, la situazione di gravità generale registrava un lieve rientro dei numeri, rimane tutta in piedi l’assurdità del rapporto costo/risultato dell’operazione messa in campo. Nel capoluogo meneghino, sotto l’egida di un commissariamento, ritenuto dai più male inevitabile, si spendono 26 milioni di euro per la creazione di 600 posti letto. I pazienti non arriveranno ad essere più di 26, proprio quanto quei milioni sperperati.
La Campania farà ancora peggio: 7,7 milioni per 72 pazienti. Non approderà nessuno in quel cabinato modulare costruito in fretta e furia ai piedi dell’Ospedale del Mare. Così come nessun malato ha mai varcato quelle stanze nelle medesime strutture di Caserta e Salerno.
Arrivati in ritardo, senza la previsione del personale medico e paramedico che avrebbe dovuto dedicarvisi, senza stabilire una strategia preventiva di confinamento dei soggetti asintomatici, senza procedere a intensificare tamponi diagnostici, test sierologici e quant’altro necessario ad isolare la platea potenzialmente infetta. Una sciagura esser finiti nelle mani di Governatori che si dividono tra sapientoni, sceriffi e persone completamente a digiuno dei principali requisiti di medicina generale.
Bene l’appello di Ernesto Paolozzi e altri che prende letteralmente a schiaffi la gestione di questa sanità, affondando il coltello nelle responsabilità decennali praticate attraverso un liberismo istituzionale e la esternalizzazione di servizi pubblici verso il privato. L’appello/riflessione individua il terreno della salute come insidioso viatico per accelerare la secessione tra Nord e Sud, delineando l’idea di un separatismo che vorrebbe approfittare anche del virus.
E allora si ritorni alla medicina di famiglia, alle reti socio-sanitarie territoriali, ai Distretti di base, alle cure preventive, all’informazione ed alla educazione sanitaria, alla continuità assistenziale. A guardare ai bisogni reali di sempre e ai nuovi allarmi epidemiologici, con competenza, privilegiando i servizi alla persona ed il rispetto per la vita.
Insomma, si passi dal benessere individuale a una condizione di agiatezza collettiva che viene alimentata dalla qualità della vita, auspicando che il diritto a vivere passi per una inderogabile condizione di libertà.
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In foto, un intervento chirurgico. La corsa alla privatizzazione ha reso sempre più farraginoso il sistema sanitario nazionale con attese interminabili per i pazienti

 

 

 

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