Dal giornalista e fotografo Giovanni Ruggiero, riceviamo e volentieri pubblichiamo un excursus su un protagonista della cultura partenopea, tra Otto e Novecento.
Il nome di Michele Comella ricorre spesso negli annali della “Promotrice Salvator Rosa”. Nelle periodiche Esposizioni di questa società promotrice delle arti, Comella si trovò accanto ai grandi artisti che dominavano la scena napoletana a cavallo tra Ottocento e Novecento. Quando la “Promotrice”, riprese l’attività nel 1904 dopo una lunga interruzione, espose insieme a Vincenzo Caprile, Giuseppe Casciaro, Vincenzo Gemito, Antonio Mancini, Vincenzo Migliaro per citarne alcuni. Enrico Giannelli nel suo dizionario del 1916 degli “Artisti Napoletani Viventi” lo ricorda tra gli altri 243 pittori che operavano o orbitavano su Napoli.
Michele Comella fu anche fotografo e si servì della fotografia, come tanti pittori che lo avevano preceduto, per la sua attività pittorica. L’artista nacque a Casaluce nel 1856 da un’antica famiglia agiata. Compì gli studi a Napoli (l’Istituto d’Arte) dove poi si trasferì per molti anni per meglio seguire la vivace scena artistica cittadina.
La fotografia arriva presto a Napoli e, come in altre grandi città europee, presto si diffuse e diventò popolare. Fu portata dagli ultimi viaggiatori del Grand Tour di cui Napoli è stata sempre una delle tappe. Questo viaggio quasi iniziatico, rito di passaggio per i rampolli dell’aristocrazia, negli ultimi anni vide altri viaggiatori: ai nobili si sostituiscono i figli della ricca borghesia. Le prime macchine fotografiche diventano indispensabili per appuntare i ricordi del viaggio e stanno già in ogni valigia.
Nel 1846, sul finire del Grand Tour, Calvert Richard Jones, dall’Hotel Des Etrangers di Santa Lucia a Napoli scatta fotografie con la tecnica del calotipo inventata dal più noto cugino Fox Talbot. L’anno prima in un “Manuale del Forestiero in Napoli” è riportato tra i giornali che si stampano in città “Il Dagherrotipo”, diretto da Gaetano Somma. Nel 1871 in città operano già 33 studi fotografici, che diventano 40 nel 1874 e quasi cento negli anni ’80 dell’Ottocento con un totale di 189 dipendenti. Tra questi vanno ricordati Ferretti, Arena, Grillet, Sommer, Gairoard, Mauri che assicurano perizia e professionalità. Scrive in un trafiletto pubblicitario uno di questi fotografi: «Fare un’arte della fotografia non è agevole, ma a ciò è perfettamente riuscito il rinomato studio fotografico di Alfonso Adamo».
A questi vanno aggiunti i dilettanti, intesi come non professionisti, che cioè non operano a scopo di lucro e tra loro va annoverato senza dubbio Michele Comella. Nessuno sarebbe in grado di dire quanti fossero. A Napoli nasce l’Associazione dilettanti fotografi con l’intento di diffondere la fotografia, promuovere il dibattito, mettere a disposizione dei soci sale di posa, laboratori, cataloghi, apparati tecnici. Tra gli aderenti, il marchese Giuseppe de Montenayar, il principe di Sirignano, il barone Alfonso Fiordelisi, il duca Waldemaro Fuchs. Tutta gente facoltosa che poteva permettersi l’acquisto di un’attrezzatura fotografica, presa magari dal rinomato “T. Schnabl – Istituto Ottico Oculistico Viennese” in via Roma 256. Certamente passava da qui Michele Comella per acquistare le lastre secche alla gelatina di bromuro d’argento, prodotte dalla “Societé anonime des Plaques et Papiers Photographiques A. Lumiere & Ses Fils”.
Comella non sfigura tra queste persone illustri ed altolocate. Eccolo, come ce lo mostra nel pieno della maturità una fotografia del 1904.
L’artista ha 48 anni. È alto, possente, imperioso, elegante. Indossa un bel cappotto pesante che lascia intravedere la camicia candida chiusa al collo con un elegante papillon nero. Non guarda nell’obiettivo. Il capo è girato leggermente sulla sinistra e ha nello sguardo un certo che di fiero, nonostante il cappello calzato in modo informale. La foto è incollata su un cartoncino che reca la dicitura: «Dono del “Giorno” ai suoi abbonati annuali». Sotto è stampigliato il marchio dello studio fotografico Alfredo Pesce e, a mano, è scritto «Prof. Michele Comella». Una piccola dicitura vanta la qualità della stampa: «Inalterabile», e va data ragione al fotografo perché la foto è arrivata intatta fino a noi. In quell’anno, chi si abbonava al quotidiano appena fondato da Matilde Serao riceveva un buono per un ritratto eseguito nello studio fotografico di Piazza San Ferdinando di Napoli. In casa Comella si masticava cultura, ci si teneva aggiornati abbonandosi ai giornali e in molte sue fotografie sono presenti strumenti musicali perché con la musica si dilettavano le donne di casa.
Dalla metà dell’Ottocento si comincia a fare la distinzione tra fotografi professionisti e fotografi dilettanti. Il piatto della bilancia, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, pende a favore di questi ultimi. Scrive L. Gioppi nel “Bullettino della società fotografica italiana” del 1894: «Il professionista non ha né voglia né tempo né mezzi per studiare e, trascinato da un’orbita fatale, limita il suo lavoro o al mero commercio quattrinaio o all’imitazione delle maniere dei concorrenti più in auge o al gusto spesso discutibile del pubblico. Il dilettante, invece, meno ben poche eccezioni, è libero del suo tempo, è fornito di un corredo di studi superiori e, il denaro non facendogli difetto, ha il mezzo di scegliere, come l’ape sui fiori, il meglio di ciò che vede, di ciò che si sa, di ciò che impara, di affiatarsi con chi studia ex professo la partita, di tenere dietro a tutto ciò che spunta sull’orizzonte industriale, di provare e riprovare le cose nuove o quelle vecchie rimesse a novo». Nel ritratto di questo dilettante colto, facoltoso, evoluto e appassionato pare di vedervi Michele Comella.
Il peso numerico dei dilettanti in Europa era così alto e la loro cifra artistica così rilevante da convincere nel 1893 il direttore della Kunsthalle di Amburgo, Alfred Lichtwark, ad ospitare nel museo la prima esposizione internazionale di fotografia di dilettanti. Furono esposte circa seimila fotografie che sbalordirono il pubblico. Beaumont Newhall nella sua “Storia della fotografia” ricorda questo evento clamoroso: «Non vi figuravano i pomposi ritratti fatti in studio da professionisti, con i loro fondi dipinti, le colonne false, i mobili d’imitazione». Lichtwark aveva capito che soltanto i fotografi dilettanti, che erano liberi da preoccupazioni economiche e avevano tempo per tentare esperimenti, potevano fare buoni ritratti: e consigliò ai professionisti, per loro stesso vantaggio, di studiarne ed emularne l’opera.
Ritroviamo anche in questa opinione di Newhall lo stile peculiare di Michele Comella che non ha uno studio fotografico e non farà mai ritratti pomposi davanti a fondi dipinti, false colonne e mobili di imitazione. Non utilizza un set per mostrare la condizione sociale vera o presunta della persona ritratta. Del resto non ha un atelier fotografico con fondali dipinti; utilizza scorci di paesaggio di ambientazione, probabilmente dove ha colto il soggetto, magari davanti l’uscio di casa, oppure improvvisa uno sfondo in modo semplice e casalingo per isolare il soggetto. Gli basta una coperta o un lenzuolo: un lembo è legato a un chiodo, l’altro è tenuto da qualcuno di casa. In un suo scatto si vede chiaramente questo casalingo atelier: una donna, probabilmente una cameriera, tiene tesa la coperta che fa da sfondo a una signora in posa vestita in modo elegante. Michele Comella avrebbe poi tagliato la fotografia in fase di stampa, eliminando il backstage, come diremmo oggi. Il risultato sarebbe stato più o meno questo:
Michele Comella ci concentra soltanto sul soggetto che guarda quasi sempre in macchina per fermare sulla lastra la somiglianza intima, come l’intese Nadar, pur non avendo tra il suo pubblico, a differenza del celebre francese, scrittori o poeti, scultori o musicisti celebri.
Giuseppa Galeone, Lucia Comella (una sua parente di sicuro), Teresina Rigliaco, Maria e Alfonso Alfieri, Annunziata De Martino, la piccola Immacolata Cannavacciuolo con il vestito della prima comunione insieme a sua zia fornaia: sono i semplici personaggi di Michele Comella che mostra di preferire il ritratto femminile.
Davanti all’obiettivo mette in posa la media e l’alta borghesia, ma anche contadini, poveri, persone che probabilmente sono a servizio in casa Comella. Li fotografa tutti donando a ciascuno un’identica dignità. I suoi poveri non sono letti in chiave antropologica né con commiserazione. Pare di leggere nei loro volti il profondo rispetto provato dal fotografo Comella che li ha voluti ritrarre. I soggetti, per primi, avvertono questa premura. Per nulla spaventati, guardano fisso nell’obiettivo quasi a sfidare il fotografo e poi l’osservatore. Sono tutti fieri e orgogliosi nei loro panni umili ma dignitosi. È da presumere che Michele Comella non prendesse alcun compenso dalle persone che appartengono al suo stesso ceto sociale. A maggior ragione è impensabile che si facesse pagare da queste dignitose contadine di Casaluce. Probabilmente si divertiva. Intendeva la sua attività di fotografo come un dono destinato agli altri.
A parte i conoscenti, Michele Comella sceglie spesso i soggetti nell’ambito familiare ai quali chiede di posare in pose plastiche con la chiara intenzione di utilizzare le foto per suoi dipinti su tela. Il contesto familiare è suggerito anche dai luoghi. Il set fotografico, la location dei suoi scatti, è spesso la sua casa al numero 106 di Corso Umberto a Casaluce. La loggia che dà sul cortile interno è l’ideale perché piena di luce. Ma qualche volta entra nell’intimità delle stanze, nel segreto di una camera da letto, per ritrarre, ad esempio, una donna che beve da una tazza da tè. Agli inizi del Novecento dovevano esserci proprio delle buone ragioni per poter entrare, muniti di una macchina fotografica, nella camera da letto dove riposa una signora. Abbiamo due pose che ritraggono questa donna. A letto beve seguendo le indicazioni del fotografo che le suggerisce la posa, raccomandandole di stare ferma il tempo necessario per impressionare la lastra al bromuro d’argento.
In questa casa hanno posato signore eleganti e sorridenti, giovani donne con lo scialle incrociato sul petto alla maniera delle contadine, uomini alteri con i baffi ben curati, bambini un po’ impacciati. Qualcuno, per farsi ritrarre da Michele Comella, giungeva per l’occasione a Casaluce vestito con estrema eleganza come dovesse recarsi al Teatro di San Carlo. Ciascuno rappresenta con fierezza e dignità la propria classe sociale di appartenenza. Qualche volta Michele Comella mischia i ceti sociali e chiama davanti all’obbiettivo padroni e servitori raggruppati in modo familiare.
Michele Comella è tra gli artisti che utilizzò la fotografia anche come strumento per la sua opera pittorica. La fotografia diventava quasi necessaria, così come il disegno preparatorio o lo schizzo precede la tela dipinta. Gli esempi sono illustri: Edgar Degas era un patito della fotografia, Eugene Delacroix si lamentava che questa invenzione non fosse venuta prima. In Italia, la produzione fotografica di Francesco Paolo Michetti fu immensa.
L’archivio fotografico di Michelle Comella è andato in gran parte perduto e anche la sua produzione pittorica si è persa in mille rivoli, sicché, se è possibile affermare con certezza che la sua fotografia avesse questo fine pittorico, è praticamente impossibile fare confronti tra le sue lastre e le sue tele. Di Comella si conservano alcuni scatti della statua della Venere del Giardino Inglese della Reggia di Caserta che è possibile confrontare con una piccola tela che rappresenta, nella stessa angolazione, lo stesso soggetto.
Certamente ha utilizzato la macchina fotografica per eseguire dei nudi che poi avrebbe riportato sulla tela. Come altri artisti aveva scoperto la “praticità” del mezzo fotografico per avere sempre a disposizione soggetti da riprendere poi con pennelli e colori. Era forse questo il ruolo di “ancella” a cui Baudelaire aveva relegato la fotografia con i suoi strali del 1859 in occasione del Salon?
Michele Comella non pare si sia mai dato preoccupazione di questa querelle innescata dall’autore dei “Fiori del male” e affermava con consapevolezza la propria cifra artistica firmando la foto direttamente sulla lastra, come allo stesso modo, da pittore, firmava la tela.
L’artista è morto a Casaluce nel 1926 ed il suo nome, presto, è finito dimenticato. Meriterebbe uscire dall’oblio. Le sue lastre sono conservate ancora nelle scatoline della rinomata ditta Schnabl. Come se Michele Comella, 92 anni fa, le avesse portate nel negozio di un fotografo per farle sviluppare, e questi, per tutta una serie di motivi se ne fosse dimenticato.
NAPOLI E L’ARTE DEL PAESAGGIO
di Sabrina Angione
Michele Comella, pittore e fotografo, ha fatto parte dell’ultima Scuola di Posillipo, vivace movimento artistico napoletano attorno a cui si era formato un gruppo di artisti dediti esclusivamente alla pittura di paesaggio.
Nato nel cuore della città partenopea intorno al terzo decennio dell’Ottocento, nello studio del pittore olandese Anton Sminkc van Pitlo (Antonio Pitloo), si prefiggeva di promuovere un rinnovamento della pittura paesaggistica, scostandosi dalle rigide regole accademiche dalla forte ventata di neoclassicismo che vedevano insignificanti, fino al ridicolo, quei piccoli dipinti formati da macchie, imprecisione e linee prospettiche fuori dai canoni, talvolta realizzati sui più disparati supporti come carta, cartone e rudi pezzi di tavola.
Succede invece che quelle piccole opere che raffigurano le bellezze della Campania con vedute paesaggistiche, spiagge stupende, mare incantato, fresche campagne, movimentate scene di vita quotidiana, prendono forza ed integrano prepotentemente la cultura napoletana, soprattutto presso l’aristocrazia e la corte. Non solo, piacciono molto ai turisti di ogni nazionalità.
Tutto questo renderà famosa la Scuola di Posillipo. Michele Comella utilizzò la fotografia, come altri artisti dell’epoca, a fini pittorici e partecipò a diverse esposizioni della Promotrice “Salvator Rosa” di Napoli. Enrico Giannelli, anch’egli artista che con Giacinto Gigante, caposcuola dopo Pitloo, si prefiggeva un rinnovamento nella riproduzione paesaggistica napoletana, annovera Michele Comella tra altri 243 pittori nel suo importante dizionario “Artisti napoletani viventi”, ancora fondamentale per conoscere quel vivace periodo artistico.