Si è svolta a Napoli la presentazione del libro “La settimana santa – potere e violenza nelle carceri italiane”. L’incontro è stato ospitato nello Spazio Arena in Vico Arena alla Sanità, organizzato dal Laboratorio politico Iskra e dal Movimento disoccupati “7 novembre”.
L’autore del libro è l’avvocato Luigi Romano, presidente di Antigone Campania, nodo dell’associazione nazionale che, dal 1991, si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. Il libro affronta il tema delle violenze perpetrate dalla polizia a danno dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), ricostruendo il contesto delle rivolte che, nella primavera del 2020, si animarono in circa una sessantina di carceri italiane.
L’opera insiste sulla decostruzione del paradigma secondo il quale vi fosse una cabina di regia malavitosa dietro le proteste dei detenuti. In realtà, questi episodi, fiorirono allo scoccare del lockdown e furono provocati da problemi cronici, quale il sovraffollamento delle strutture, uniti alla paura del contagio, data dalla mancata adozione di misure necessarie atte ad assicurare la tutela della salute delle persone detenute.
Secondo Romano, quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere è paragonabile a una rappresaglia nazifascista contro la popolazione inerme. Nell’analisi dell’autore, il carcere è uno strumento di repressione e contenimento delle marginalità sociali, connaturato all’attuale sistema produttivo e sociale. Per questa ragione, è un problema che riguarda la società intera.
I promotori dell’evento, intervenuti alla presentazione, sottolineano che «le carceri italiane sono ridotte a discariche sociali e sono collassate all’unisono sotto il peso della pandemia. Per questo, è fondamentale continuare a discuterne e lottare affinché questa istituzione venga del tutto abolita».
Un inquietante precursore storico delle violenze contro i detenuti è insito alla repressione che si abbatté sui manifestanti no global a Napoli e Genova nel lontano 2001. All’epoca, tuttavia, ciò che accadde nelle piazze e nelle caserme, che pure portò a inchieste parlamentari e lunghissimi iter processuali, non poté contare sull’ausilio del servizio di videosorveglianza interna alle strutture in cui i manifestanti vennero pestati. In questi termini, risultano scioccanti le immagini e i video raccolti all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere.
La «orribile mattanza» – così come l’ha definita il giudice per le indagini preliminari Sergio Enea– nel carcere casertano non fu, certo, un episodio isolato. In base a quanto riportato nella relazione della commissione ispettiva, le proteste esplosero negli istituti carcerari di tutta la Penisola e vennero quasi ovunque soffocate nel sangue da reparti mobili e nuclei di pronto intervento in assetto antisommossa.
La relazione finale della commissione ispettiva del Ministero della Giustizia, costituita dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nel luglio 2021, ha analizzato attentamente i fatti accaduti nel marzo 2020. Secondo la relazione non è stata riscontrata in alcun modo la minima traccia di una regia della «criminalità organizzata e nemmeno una matrice politica anarchica o insurrezionalista».
Da Napoli Poggioreale a Pavia, da Padova a Cremona, da Milano San Vittore (che ha un tasso di sovraffollamento del 96%) a Bologna, da Foggia a Matera, da Roma Rebibbia Nuovo Complesso a Termini Imerese non si contano i pestaggi dei detenuti. Poi, vi sono casi estremi.
Nel carcere di Rieti, dove sono deceduti due detenuti e altri sono stati trasportati in ospedale a seguito dell’assunzione di psicofarmarci, pendono dei procedimenti penali contro ignoti. A Melfi, pende un procedimento per violenza a danno dei detenuti per il quale è stata richiesta l’archiviazione dalla procura di Potenza. A Ferrara, Alessandria, Isernia, Siracusa, Palermo Pagliarelli e Trapani, moltissimi reclusi hanno denunciato pestaggi, sevizie, forme di tortura.
Come analizza Gaia Tessitore (napolimonitor.it, 23 agosto 2022): «Per tutti gli istituti analizzati, (…) le problematiche individuate all’origine delle proteste sono sempre le stesse: paura del contagio, sovraffollamento, mancanza di comunicazione con i detenuti, chiusura dei colloqui, omessa fornitura di qualsiasi tipo di strumento di prevenzione del contagio e richieste di provvedimenti di clemenza o di liberazione da parte della magistratura di sorveglianza.
L’affannoso e infruttuoso tentativo di individuare una “regia occulta”, oltre che cause esogene alle proteste (la presenza di familiari e attivisti fuori gli istituti penitenziari nei giorni delle rivolte o le richieste da parte di associazioni per provvedimenti di liberazione anticipata), depotenzia le conclusioni della relazione. Quest’ultima, infatti, con riferimento ai fatti di Modena e Melfi, fa trasparire dubbi rispetto al corretto operato della polizia penitenziaria, ma non si spinge oltre in ragione delle indagini ancora in corso o la mancanza di elementi documentali e probatori.
L’impossibilità di mettere in relazione la risposta scomposta e violenta degli agenti di polizia penitenziaria con la presunta esistenza di un piano preordinato palesa piuttosto la preoccupante incapacità dell’amministrazione di una lettura efficace della realtà e dei fenomeni che si sviluppano dentro e intorno al carcere. (…) Infatti, come in un’excusatio non petita, la relazione si conclude con un riferimento alle condotte violente che gli agenti di polizia penitenziaria hanno tenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, definendole “eccezioni alla regola”, “casi isolati che non possono certamente scalfire la reputazione dei tanti servitori dello Stato che ogni giorno lavorano negli istituti penitenziari del nostro Paese in condizioni difficilissime, con spirito di sacrificio e senso di responsabilità istituzionale”. Su quanto la vicenda campana (con tutta la catena di comando coinvolta, fino ai più alti livelli) possa considerarsi un caso isolato, in un contesto nazionale che ha coinvolto in pochi giorni quasi sessanta carceri e provocato tredici morti, bisognerebbe interrogarsi seriamente. Solo in parte, infatti, potrà rispondere a questa esigenza la Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere».
A fare le spese di questa pesantissima situazione sono stati i detenuti. In base a quanto riportato da Romano durante la presentazione del suo libro, a partire dall’episodio di Santa Maria Capua Vetere sono stati aperti 18 procedimenti penali per tortura. L’autore de “La settimana santa” ha più volte insistito sull’obsolescenza del sistema carcerario italiano. Secondo lui, per contrastare il sovraffollamento degli istituti penitenziari bisognerebbe: «indebolire il controllo penale sulla povertà e garantire casa, lavoro e reddito universale come clausola di sicurezza sociale». Inoltre, il giovane avvocato ha messo in luce il rimpallo di accuse nella catena gerarchica che ha eseguito la mattanza nel carcere casertano, con scambi di accuse fra la truppa e i comandanti.
«Non bisogna trasformare quanto accaduto in un ricordo. Il sistema contenitivo non ce la fa più e per questo va superato» sono state poi le dichiarazioni degli organizzatori, che hanno tenuto a ribadire la propria solidarietà all’anarchico Alfredo Cospito, ormai da 50 giorni in sciopero della fame nel carcere diSassari Bancali, in protesta contro l’articolo 41bis, il blocco della corrispondenza e le due sole ore d’aria al giorno in un cubicolo dal quale non si vede nulla di esterno alla prigione.
Probabilmente, non sbaglia chi sostiene che il tenore di democrazia di un paese si debba misurare valutando lo stato delle sue carceri. Questo elemento, unito alla possibilità di identificare chi abusa della propria posizione vestendo una divisa di tutore della legge, dovrebbe divenire il grimaldello per agire in un contesto che rischia il collasso e richiede urgenti riforme.
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