Da circa due anni, il caso della paventata chiusura dello stabilimento Whirpool di Napoli tiene banco sui media nazionali e locali. La fabbrica che produce lavatrici a carica frontale di alta gamma, secondo l’ipotesi di accordo quadro sottoscritta dalle parti sociali al Ministero dello Sviluppo Economico nel 2018, avrebbe dovuto confermare la propria missione produttiva. Nell’ipotesi di Piano industriale 2019-2021, alla lettera “A. Produzioni”, si può leggere quanto segue: «Il totale degli investimenti previsti per il sito nel triennio 2019-2021 sarà di circa 17 milioni di euro, tra prodotto, processo, ricerca e sviluppo»1.
A oggi, 355 operai non solo hanno visto disattese le promesse fatte dalla multinazionale statunitense, ma vedono sempre più concretizzarsi la fine della cassaintegrazione – che verrà erogata fino ai principi di marzo 2021 – e lo spettro della disoccupazione. Tuttavia, il caso non è l’unico del suo genere e rientra in una lunga catena di dismissioni industriali che hanno irrimediabilmente segnato, nel corso degli ultimi cinquant’anni, la storia della periferia orientale di Napoli, che con una superficie pari ad un quinto della città, per un totale di circa 200 mila abitanti, rappresenta la più estesa area dismessa del Mezzogiorno.
LE ORIGINI
L’8 luglio 1904 venne promulgata la legge n. 351, denominata: “Provvedimenti per il risorgimento economico della città di Napoli”, il cui ispiratore fu Francesco Saverio Nitti, neo-eletto deputato nelle file del Partito Radicale Italiano.
Il politico lucano, formatosi a un’idea di meridionalismo riformatore, venne chiamato a svolgere il ruolo di consulente tecnico da Giovanni Giolitti, all’epoca Presidente del Consiglio, per elaborare un testo legislativo che ampliasse verso la fascia costiera orientale il capoluogo campano, assegnandogli una vasta zona franca produttiva/residenziale dedicata al secondario pesante e all’edilizia popolare, consolidando e ampliando una già pregressa tradizione proto-industriale e manifatturiera.
Il progetto nittiano posava il proprio fulcro su una politica di sgravi fiscali per attrarre nuovi investimenti industriali. Dell’idea originaria ne venne attuata solo una parte, sufficiente però a dar vita all’Ente Volturno per la produzione dell’energia elettrica e allo stabilimento Ilva di Bagnoli per la produzione di acciaio. Il sogno della “Grande Napoli” incominciava a prendere forma e, con esso, prendeva il via una politica governativa volta ad assicurare consenso politico e controllo sociale.
Prima che vi si insediassero nuove e eterogenee attività produttive, la zona orientale di Napoli era sede già dalla seconda metà del XIX secolo di alcune importanti attività industriali, fra cui il Real Opificio di Pietrarsa, grande polo siderurgico e meccanico situato fra Portici e San Giovanni a Teduccio; il conservificio Cirio, con una prima vocazione a semplice deposito dell’azienda agro-alimentare settentrionale, poi divenuta fabbrica nel 1892, sempre con sede a San Giovanni a Teduccio; la Deluy-Granier di San Giovanni, poi Società Siderurgica Corradini, sorta sulla fine dell’Ottocento. Accanto a queste realtà, sorsero col tempo numerosissime attività minori che andavano a costituire il “settore tradizionale” della produzione locale, ovvero concerie, pelletterie, guantifici, fabri-ferrai e falegnamerie.
L’intervento della legge speciale su Napoli del 1904 segnò tutta la fascia costiera, costituita da una piana alluvionale fatta di zone acquitrinose e palustri con canali navigabili, che venne così riadattata per ospitare un massiccio insediamento di stabilimenti industriali.
A est e a ovest della città si vennero così conformando dei distretti produttivi in cui, sposando una logica in voga all’epoca in tutta Italia, zone residenziali di edilizia popolare e zone industriali si integrassero fra loro, con gravi conseguenze sulla salute, sull’igiene e sul degrado ambientale.
L’IMPETUOSA CRESCITA
DI NAPOLI EST
Fra gli anni venti e trenta del Novecento, l’intera filiera petrolifera si insedia nella zona orientale della città, fra San Giovanni a Teduccio, Barra e Gianturco. Sorgono infrastrutture petrolifere, raffinerie, industrie specializzate nella lavorazione dei derivati del petrolio, attività di stoccaggio e movimentazione del greggio.
Le gigantesche opere sono tuttora presenti in loco. La ricchezza e la posizione di questo immenso segmento di territorio, che andava conformandosi sempre più come la costruzione di una «città-fabbrica», divenne oggetto di continue incursioni aeree durante la seconda guerra mondiale (1939-1945) e fu teatro di un tentativo di devastazione da parte delle truppe occupanti naziste all’indomani dell’8 settembre 1943, che venne impedito dalla popolazione durante l’insurrezione antifascista delle Quattro giornate di Napoli. Tuttavia, gli impianti produttivi di maggiori dimensioni rimasero paralizzati per anni.
Nel secondo dopoguerra, in seguito al boom economico, Napoli est divenne il cuore logistico dell’intera Campania, ma la sua vocazione industriale risultò sempre più confusa e disomogenea. Agli stabilimenti chimici, metalmeccanici, petroliferi, si sommarono aziende medie e piccole specializzate nel tradizionale comparto manifatturiero, nella lavorazione di pellami, nella conceria. Vennero introdotte forme di lavoro a domicilio, a forte caratterizzazione femminile.
I rioni popolari seguirono sempre più i ritmi frenetici imposti dalla produzione nelle fabbriche. Aumentò l’assorbimento di manodopera locale, che andò ingrossando le schiere del poderoso movimento operaio napoletano. Iniziò a porsi, in modo sempre più allarmante,la questione socio-ambientale, contraddistinta dall’insalubrità di interi quartieri operai, affogati da inquinamento atmosferico, mancanza di servizi idrici e fognari efficienti, avvelenamento delle falde acquifere e di terreni a vocazione agricola tramite i reflui industriali e lo scarico abusivo di materiali non smaltiti legalmente dalle aziende.
Napoli est divenne un enorme sito industriale in cui ai capitali privati si aggiungevano i poderosi investimenti delle Partecipate Statali. Le fortune industriali dell’area vennero ulteriormente implementate dalla Legge Segni n. 634 del 29 luglio 1957, che trovò applicazione eccezionale di questo provvedimento (in origine riservato ai soli comuni minori) anche alla città di Napoli con la Legge Speciale del 27 gennaio 1962.
Ancora una volta, si favoriva la localizzazione di nuovi investimenti industriali, attirati in loco da agevolazioni e finanziamenti ordinari e straordinari, dal progressivo miglioramento delle infrastrutture, dalla maggiore internazionalizzazione degli scambi e, infine, dal basso costo della manodopera. Vennero così a accalcarsi attività industriali di base o intermedie, inerenti prevalentemente i settori melameccanico, gomma e plastica, petrolifero, petrolchimico e agro-alimentare.
Nel 1972 si tentò di disegnare una differente pianificazione urbanistica con l’introduzione del nuovo Piano regolatore generale di Napoli: «Molteplici proposte urbanistiche, volte a decongestionare la zona attraverso la razionalizzazione edilizia ed una parziale delocalizzazione delle attività industriali più ingombranti si arenarono sull’insormontabile scoglio posto dalle giunte comunali laurine, pienamente votate al dogma dell’accentramento industriale e dell’illimitata espansione edilizia ed armate di una serie di “piani di ricostruzione” eccezionali, al di sopra della legge urbanistica nazionale, che andavano quindi ad ostacolare i Piani Regolatori Generali. Si determinò così l’accentuarsi del processo di saturazione degli spazi urbani nella zona orientale, spazi geneticamente condivisi dalla produzione e dal dormitorio.»2
Di fatto, il Prg del 1972 non riesce a razionalizzare efficacemente l’espansione residenziale nella zona orientale della città, né a decongestionare un territorio denso di aree industriali che producevano un elevatissimo quantitativo di polveri inquinanti a ridosso di scuole, ospedali ed edifici abitativi.
Non di rado, si verificarono incidenti che sfiorarono la catastrofe, come nel caso dell’esplosione di un serbatoio del deposito Agip in via Brecce Sant’Erasmo, il 21 dicembre 1985, che provocò 5 morti, 160 feriti e lo sfollamento di oltre 2500 abitanti nelle zone incluse fra i quartieri di Gianturco e San Giovanni a Teduccio.
DEINDUSTRIALIZZAZIONE,
L’INIZIO
Con le due crisi petrolifere mondiali, rispettivamente del 1973 e del 1979, qualcosa incominciò ad incrinarsi bruscamente. Con la stagnazione economica globale entrò in crisi il modello produttivo fordista. Nella zona orientale di Napoli, il settore più duramente colpito – in luogo anche di una nuova attenzione verso le condizioni di salute dei quartieri operai e l’impatto ambientale delle produzioni inquinanti – fu quello tradizionale di pelli, calzature, guanti, falegnameria e mobilio, per lo più operanti nella piccola e piccolissima dimensione industriale. L’ambito delle concerie, tra le più antiche attività produttive dell’intera fascia costiera napoletana, subì un contraccolpo devastante. Non solo. Le indicazioni del nuovo Piano Regolatore, unite all’effetto della Legge Merli del 1976 sull’inquinamento delle acque e alla concorrenza di mercato di Paesi in via di sviluppo, determinarono fenomeni di delocalizzazione delle concerie nell’hinterland napoletano o nelle grandi aree attrezzate, come il polo di Solofra. Da quanto riporta lo studio di Caruso:
«In un’intervista del 1977 a alcuni operai del quartiere Barra, “l’Unità” quantifica la crisi della piccola dimensione tradizionale locale nella perdita di circa tremila posti di lavoro nel solo triennio 1975-77. Trattandosi perlopiù di forme di lavorazione artigianali o addirittura a domicilio, a conduzione familiare, si può ipotizzare che l’impatto negativo sul numero delle unità produttive sia quantificabile in alcune centinaia. Tuttavia, sebbene sia quasi spazzato via nel corso degli anni settanta, infima parte del settore tradizionale locale riuscirà ad aggiornarsi alle nuove esigenze ecologiche e a sopravvivere nell’economia sommersa fino ai primi anni del nuovo millennio».3
Anche il polo petrolifero e petrolchimico entra in crisi. Nonostante il timido tentativo delle multinazionali del petrolio di mantenere in funzione gli impianti, godendo del sostegno statale contro i progetti di delocalizzazione, la combinazione fra crisi petrolifera internazionale e limitazioni territoriali portarono negli anni settanta alla chiusura di ventitrè unità locali con il conseguente licenziamento di 2500 operai e addetti ai lavori. Il movimento operaio della zona orientale lottò accanitamente per difendere con ogni mezzo la sopravvivenza del sistema fordista, da cui dipendeva la propria sussistenza, quotidianità, identità.
A cascata, entrò in crisi tutto il settore manifatturiero. Con un articolo redazionale del 26 ottobre 1979,”l’Unità” denunciava la crisi in atto in tutto il triangolo industriale dei quartieri di San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli, che fecero registrare un primato di mortalità industriale elevatissimo.
Chiusero la Snia Viscosa, che produceva fibre sintetiche, col licenziamento di 600 operai; l’Interfan, azienda chimica legata al gruppo Snia, che licenziò 140 dipendenti. Seguirono la Vetromeccanica, la Decopon, l’Icm, la Rivetti, la Cirio (appartenente all’epoca al gruppo Sme-Iri), la Cmn, le aziende del settore della carpenteria, della falegnameria, della meccanica, della chimica. Furono migliaia le persone a perdere il lavoro.
In base a uno studio Cesan – Centro studi aziendali “Giuseppe Cenzato” del 1982, il saldo fra natalità e mortalità industriale, tra il 1971 ed il 1981, risultò in caduta libera. Il tasso di natalità, di fatti, copriva solo il 70% il tasso di mortalità produttiva. Questo fenomeno si generò sia per le politiche di delocalizzazione delle multinazionali private, sia per l’incapacità delle aziende a partecipazione statale di rigenerarsi in loco e rispondere alle esigenze di un territorio che stava smarrendo l’occupazione e, con essa, la propria sopravvivenza.
CASO WHIRPOOL: INCERTO FUTURO DELLA ZONA ORIENTALE
Nel corso dell’ultimo trimestre 2020, il gruppo Whirlpool ha rilasciato ai propri azionisti gli utili del terzo trimestre, che hanno superato le previsioni degli analisti di settore. Chi ha acquistato azioni della multinazionale statunitense, ha visto un guadagno del 4,61% dei propri profitti. Se si valuta l’intero anno solare, nel solo 2020 il gruppo Whirpool EMEA (la divisione che si interessa del mercato in Europa, Medio Oriente ed Africa) ha avuto un aumento di utili del 33%. Se si considera poi, che dal 2015 il gruppo con sede in Michigan (USA) è leader indiscusso del mercato degli elettrodomestici, con entrate superiori ai 20 miliardi di dollari all’anno, appare veramente un paradosso la scelta di voler chiudere lo stabilimento di Napoli, avviando così una nuova stagione di dismissione industriale in tutto il Paese.
In barba all’accordo sottoscritto al Mise nel 2018, la direzione aziendale si ostina nel non voler rispettare gli accordi presi e non presentare un nuovo piano industriale. In questa vicenda, risulta paradossale anche il ruolo del Governo, estensore dell’ipotesi di accordo quadro. Nel 2018, l’allora ministro dello sviluppo economico, Luigi Di Maio, attualmente incaricato al dicastero degli Esteri, impegnava la compagine governativa nel prorogare gli ammortizzatori sociali in cambio della promessa della Whirpool Emea di mantenere operative tutte le fabbriche in Italia e di garantire proprio nello stabilimento di Napoli l’intera produzione delle lavatrici di alta gamma, le cosiddette “Omnia”. A oggi, l’azienda continua a non rispettare i patti e ha del tutto sospeso la produzione nella fabbrica locale.
Gli operai, ancora una volta, non sono rimasti a guardare. Per due anni si sono susseguiti scioperi, mobilitazioni, occupazione di viadotti, assemblee, cortei per le strade della città. La popolazione ha risposto all’appello operaio e ha più volte inscenato momenti di solidarietà. La stessa amministrazione cittadina ha fortemente sostenuto la vertenza dei lavoratori e delle lavoratrici della Whirpool con il sindaco, Luigi de Magistris, e l’assessora alle politiche sociali e al lavoro, Monica Buonanno. Quest’ultima, nel corso di un’intervista rilasciata a ilmondoodisuk il 13/10/2020, ha dichiarato senza mezzi termini: «Far chiudere uno degli ultimi stabilimenti della cosiddetta “zona industriale” – trasformata nel tempo in un deserto – vuol dire consegnare centinaia di famiglie alla camorra.» e poi, ha aggiunto: «Se non si comprende che le persone hanno bisogno del lavoro e dei diritti, si nega la dignità umana condannando chi ne paga le spese alla povertà, alla criminalità organizzata, alla marginalità sociale. (…) Napoli necessita di un nuovo piano per il lavoro, in cui vi sia una visione integrata fra riconversione industriale, investimenti, formazione, diritti».4
Qual è il destino dell’area orientale della città? Questa zona attualmente è fatta di capannoni industriali dismessi, strade non manutenute, marciapiedi in rovina, degrado, abbandono. L’amministrazione cittadina da tempo sta portando avanti l’idea dell’Incubatore sociale per Napoli est, progettato e realizzato dal Servizio mercato del lavoro, ricerca e sviluppo economico del Comune di Napoli, su iniziativa dell’Assessorato al bilancio, al lavoro e alle attività economiche . Il progetto nasce nell’ambito degli interventi per lo sviluppo imprenditoriale in aree di degrado urbano previsti dalla legge Bersani (legge 266/1997) e finanziati dal ministero dello sviluppo economico.
In particolare, questa iniziativa intende promuovere un nuovo sviluppo dell’area orientale di Napoli, per contribuire al rilancio del sistema economico e per favorire l’integrazione di attività produttive, servizi ed infrastrutture presenti sul territorio, combinando una sinergia fra pubblico e privato.
Tuttavia esistono delle problematiche di ordine generale, che non possono essere eluse e travalicano la volontà locale, chiedendo degli interventi statali: « I capitali finanziari operano in maniera selettiva con i territori dell’industrializzazione: premiano gli investimenti immobiliari nelle aree libere dalle sopravvivenze industriali oppure, nella migliore delle ipotesi, attendono che queste vengano reinserite in progetti di bonifica e rigenerazione che possano farsi carico degli ingenti costi di riconversione dei terreni».5
A questo punto, è lecito auspicarsi che il governo imponga alla Whirpool di rispettare gli accordi assunti, salvaguardando il funzionamento di tutti gli stabilimenti del gruppo e i livelli occupazionali, chiarendo le motivazioni per cui la produzione a Napoli non può continuare. Solo in un secondo momento, a valle della descrizione del piano industriale e delle sue eventuali criticità, si può rendere necessario avviare una riflessione ad ampio raggio con organizzazioni sindacali, attori istituzionali, società civile e la stessa azienda, in modo da definire un nuovo approccio alla produzione delle lavatrici.
L’auspicio è che il caso della Whirpool non divenga l’ennesima ferita inferta a una città che si è vista depredare di infrastrutture ed investimenti dal capitale straniero e dai grandi industriali del Nord Italia. In questo, anche la sinistra nazionale e le organizzazioni dei lavoratori scontano un notevole ritardo. Oggi più che mai c’è bisogno di recuperare sul terreno del futuro dell’area orientale della città e della questione meridionale.
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NOTE
1Dal testo del documento: “Ipotesi Accordo Quadro – Whirpool: Piano Industriale Italia Whirpool 2019-2021”, sottoscritto al MISE il 25 ottobre 2018 dall’allora Ministro allo Sviluppo Economico, Lugi Di Maio; da rappresentanti delle Regioni Campania, Lombardia, Marche, Toscana; dalla Whirpool EMEA Spa; da rappresentanti delle Organizzazioni Sindacali FIM Cisl, UILM Uil, FIOM Cgil, UGL METALMECCANICI.
2Valerio CARUSO, Territorio e deindustrializzazione. Gli anni settanta e le origini del declino economico di Napoli est in Meridiana – Rivista di Storia e Scienze Sociali, No. 96 (2019). Pg. 214.
3Valerio CARUSO, Ivi, Pg. 222.
4L’intervista è consultabile al link: https://www.ilmondodisuk.com/lintervista-lassessora-comunale-monica-buonanno-lavoro-e-diritti-unica-alternativa-per-dare-un-futuro-a-napoli-in-primo-piano-la-dignita-delle-persone/
5Luca SALMIERI, Deindustrializzazione, hinterland portuale ed entroterra: il caso di Napoli Est in Gli entroterra delle città di mare, L’Harmattan Italia, pg. 154.