Nel centro storico di Napoli, a ridosso di uno dei quartieri più emblematici e popolari, esiste un edificio dalla foggia decadente che ha una storia antica e avvolta nel mistero.
L’ex convento di Sant’Arcangelo a Baiano si affaccia nella piazzetta omonima, fra i vicoli che separano Corso Umberto I (il Rettifilo) da via Forcella. A pochi metri dal plesso, sussiste la chiesa di Sant’Agostino alla Zecca o Sant’Agostino Maggiore, che per storia, dimensioni e importanza è una vera e propria cattedrale, attualmente inibita al pubblico per dei lavori di restauro operati dalla Curia, che durano da svariati lustri. Questo a dimostrazione del fatto che la zona ha ricoperto, nel corso dei secoli, un certo valore ecclesiastico e culturale, nonché ha rappresentato un punto di riferimento per i cittadini napoletani.
La datazione della chiesa di Sant’Arcangelo a Baiano rimane incerta. Le fonti più accreditate – il cui primato spetta alla Sopraintendenza per i Beni Artistici e Storici di Napoli – ci indicano che l’edificio religioso venne fondato alla fine del VI Secolo sulle spoglie di un precedente insediamento in cui veniva osservato il culto di divinità pagane minori, fra cui probabilmente Ercole o Serapide.
Non bisogna dimenticare, infatti, che l’affermazione del Cristianesimo a Napoli fu lenta e dovette scontrarsi con culti pagani di origine greca ed orientale che poi, a partire dal II secolo d.c., decaddero.
Attraverso lo studio dei Gesta episcoporum Neapolitanorum, gli storici che si sono occupati del culto canonico sono stati in grado di ricostruire la pratica devozionale del cristianesimo delle origini in città a partire dai primi vescovati, il cui capostipite risulta essere Sant’Aspreno, che secondo il mito sarebbe stato battezzato e consacrato vescovo da San Pietro in persona.
La chiesa sorse su un luogo precedentemente occupato da un sacello pagano. Nel 593 d.c., per cancellarne traccia e forte delle cospicue donazioni, l’abate Teodosio consacrò la terrà e vi istituì il culto di San Michele Arcangelo, che venne detto a Baiano – secondo alcuni studi – per la presenza della nobile famiglia dei Bajani, appartenenti al Seggio della Montagna[1]. L’edificio ecclesiastico, dedicato ai Santi Arcangelo e Pietro, venne eretto dai seguaci dell’ordine di San Basilio, comunità monastica italo-greca particolarmente diffusa nell’Italia meridionale del tempo.
In epoche successive, l’adiacente convento di Sant’Arcangelo a Baiano passò alle monache osservanti il culto di San Benedetto. Nel XIII secolo, l’intera struttura (chiesa e convento) venne restaurata da re Carlo I d’Angiò, che donò alle monache benedettine le reliquie di san Giovanni Battista.
Nella Napoli dell’epoca, era costume delle famiglie nobiliari imporre alle figlie, generalmente le secondogenite, l’ingresso nella vita di clausura. Prendere i voti significava consentire ai nobili di risparmiare sulla dote di eventuali matrimoni, preservando le proprie ricchezze. Ma non erano pochi i casi in cui giovanissime donne venivano spedite in convento come forma di punizione.
Secondo talune ricostruzioni, dalla dubbia veridicità storica, il plesso monacale di Sant’Arcangelo a Baiano divenne luogo di culti esoterici, consumati con riti orgiastici e venerazioni mefistofeliche. Il terreno stesso, solcato da un corso d’acqua detto della Fistola, veniva ritenuto fonte di esalazioni afrodisiache e presenze demoniache.
Secondo gli studiosi della Napoli esoterica, tra cui Mario Buonoconto, il luogo è un punto di forza e centro di “energie magnetiche”. Queste narrazioni, che risultano cariche di fascinazione per derive mistiche e affabulazioni retoriche, posano le proprie traballanti fondamenta sullo svolgimento di alcuni episodi efferati che si consumarono attorno alle vicende di alcune monache benedettine di nobile discendenza, decantate per il proprio fascino e per la notorietà del proprio blasone dinastico.
Che da qualche tempo il convento di Sant’Arcangelo a Baiano avesse attirato, oltre che le figlie dell’aristocrazia, anche l’attenzione di cortigiani, nobili e letterati, è cosa nota.
Come nel caso di Fiammetta, secondo alcuni figlia del re Roberto d’Angiò, secondo altri semplice trasposizione letteraria di una monaca benedettina incontrata nella basilica di San Lorenzo Maggiore, decantata dal Boccaccio come donna-oggetto della sua prosa. Fiammetta appare come una delle sette novellatrici del Decameron e ad essa sono dedicati i versi d’amore de la Caccia di Diana, del Filostrato e del Teseida[2], poemi composti dal poeta toscano durante il soggiorno napoletano. Siamo nel XIV Secolo, a circa un secolo dagli eventi terribili che ebbero luogo in seguito.
Più che entrare in una narrazione scandalistica, tesa a esaltare le vicende personali di questa o quella monaca, bisogna contestualizzare le vicende storico-sociali e comprendere che tutte le strutture di clausura divennero, al tempo, oggetto di amori e visite clandestine di estranei. La tal cosa non deve sorprendere.
Le giovanissime ragazze che vi venivano tradotte vedevano negate dai propri ricchi genitori la possibilità di disporre del proprio corpo e del proprio destino. In questa chiave di lettura, non dovrebbe sorprendere più di tanto il fatto che al di sotto di strutture ecclesiastiche dedicate alla clausura venivano seppelliti i feti di gravidanze concepite fra le mura clericali.
La vita di monastero era durissima e, almeno sulla carta, non tollerava indulgenza alcuna. La repressione dei desideri, la monotonia, le rigidità della vita monastica inibivano il libero sviluppo intellettuale e fisico di moltissime giovani donne.
E’ per questo che, a distanza di molti secoli, le copulazioni, i tradimenti, gli intrighi, le dicerie che ruotano attorno a figure come quelle delle monache Giulia Caracciolo e Agnese Arcamone, entrambe di nobili natali, sono dure a morire. Furono oggetto di pettegolezzi per la particolare amicizia che le legava.
Le loro principali accusatrici, Eufrasia d’Alessandro e Chiara Frezzi, altre due consorelle, alimentarono voci e dicerie sul loro conto. In tutta risposta, Giulia Caracciolo fece assassinare gli amanti delle due monache, che si stavano introducendo segretamente nella struttura.
La Curia decise di non aprire alcuna inchiesta al riguardo, onde evitare scandali nell’opinione pubblica della Napoli bene, ma sia Eufrasia, sia Chiara si “suicidarono” in circostanze mai chiarite. A loro, si aggiunse la badessa, anch’essa suicidatasi.
Ricordiamo che nel 1565 si concluse il Concilio di Trento. In tutta la Penisola imperversava la Controriforma ed il clima di Inquisizione. Le donne venivano accusate molto facilmente di stregoneria ed il loro stesso corpo veniva descritto come frutto della tentazione. Purtroppo, a distanza di secoli, paiono non esserci stati molti progressi al riguardo…
A ogni modo, fu così che nel 1577, dopo un’inchiesta-lampo il convento venne soppresso. Secondo alcuni appassionati, l’ordine della soppressione del monastero provenì direttamente dal Cardinale Pietro Carafa.
Questa ricostruzione è stata ripresa da diversi autori, forse un po’ superficialmente, in quanto il Cardinale Gian Pietro Carafa, poi divenuto Papa Paolo IV, morì nel 1559. All’epoca della soppressione del monastero (1577) era in carica il Cardinale Paolo Burali d’Arezzo. Ma è un dettaglio.
I fatti ci dicono che l’edificio venne chiuso per gli omicidi e gli scandali che si erano perpetrati nelle sue mura. La struttura venne abbandonata allo stato laico fino a quando, nel 1645, non tornò a rivivere grazie ai Padri della Mercede, che rimisero in funzione la chiesa ed il convento. Ma il monastero venne nuovamente soppresso durante il cosiddetto “Decennio francese” del Regno di Napoli (Regno delle Due Sicilie) tra il 1805 ed il 1815, a opera di Giuseppe Bonaparte, prima, Gioacchino Murat, dopo.
Tutto il plesso venne abbandonato e lasciato in stato di degrado, fino a quando, a partire dal XIX secolo, non venne occupato da abitanti di Napoli, che lo elessero a propria dimora. La chiesa venne trafugata di diversi dipinti di Antonio Fumo, ma tuttora è una testimonanza di architettura catalana del Quattrocento. Col tempo, sono sorti nell’adiacente monastero appartamenti abusivi, che ancora oggi esibiscono con orgoglio le proprie balconate persino al di sotto della croce diroccata che indica la presenza della chiesa.
Nella sua Cronaca del Convento di Sant’Arcangelo a Baiano, anche lo scrittore Marie-Henri Beyle, al secolo Stendhal, ricostruì con particolari erotici e grotteschi le vicende del monastero e di una parte della città di Napoli, oppressa da un cieco e miope clericalismo.
Oggi ci viene tramandata una struttura in cui la leggenda vuole che, nelle notti più cupe, gli spiriti di alcune monache benedettine liberino urla lancinanti di strazio e dolore. Di sicuro, l’edificio è in stato di abbandono e all’interno vi si sono insediate famiglie, bassi e addirittura una fabbrica, successivamente dismessa. Il plesso andrebbe posto in sicurezza e ristrutturato. Ma l’intera storia che avvolge il luogo continua ad essere avvolta in un velo di incuria e superstizione. Di certo, a colpo d’occhio, fa un certo effetto poter osservare una delle tante opere “viventi” presenti in città, che i napoletani hanno tentato di recuperare al degrado ed all’abbandono.
©Riproduzione riservata
[1] I seggi (o sedili o piazze) erano degli organismi di natura consultiva, che riunivano al proprio interno i rappresentanti delle famiglie aristocratiche della città. Tali organismi godevano di alcune prerogative, fra cui la riscossione di imposte, compiti amministrativi e giuridici. I seggi vennero istituiti da Carlo II d’Angiò nel XIII secolo, seguendo la suddivisione delle cinque sezioni municipali in cui era frazionata la città del tempo. Ai cinque sedili, composti dai nobili, se ne sommava un sesto detto “del popolo”, in cui si raccoglievano esponenti del ceto mercantile, della piccola borghesia, degli artigiani. I sedili rimasero in vita fino al XIX secolo.
[2] La Caccia di Diana è un poemetto in terzine, ascrivibile al periodo napoletano del Boccaccio, in cui si mescolano il latino medievale e la lingua volgare, il cui contenuto si interroga sui mali dell’amore. Il Filostrato è un poemetto giovanile composto in ottave, che narra dell’amore di Troilo, ultimo figlio del re Priamo, per Criseide, sacerdotessa d’Apollo. Il Teseida è un poema scritto in lingua volgare e composto in ottave di endecasillabo, il cui proemio è costituito da una lettera in prosa dal titolo: “A Fiammetta”, amata dal Boccaccio.