Negli ultimi tempi la casa editrice Neri Pozza ha presentato due biografie romanzate dedicate a una donna ricca di talento, dal carattere complesso e tormentato, che visse una vita fuori dagli schemi, una scrittrice verso la quale, recentemente, noto con grande piacere una crescente attenzione: Mary Wollstonecraft Godwin Shelley (1797 – 1851).
Il primo titolo pubblicato, “Amore e furia” scritto da Samantha Silva (https://www.ilmondodisuk.com/le-disobbedienti-mary-wollstonecraft-filosofa-e-scrittrice-che-lotto-per-affermare-i-diritti-delle-donne/), si concentra sulla nascita di Mary e sul rapporto che la madre Mary Wollstonecraft – morta di febbre puerperale undici giorni dopo averla data alla luce – ebbe con lei fornendo lo spunto per indagarne il carattere, la vita e le scelte.
Sua madre fu scrittrice, filosofa, viaggiatrice ed autrice di un testo fondamentale per i diritti delle donne: “A vindication of the rights of woman” (1792) concepito a Parigi durante il soggiorno nell’epoca del terrore, un testo da leggere e comparare con l’opera di un’altra scrittrice che nello stesso periodo si concentrò sui diritti delle donne – insieme con quelli di tutte le minoranze – e fu ghigliottinata Olympe de Gouges: “La dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina” (1791) .
Anche Wollstonecraft visse una vita fuori dagli schemi ed ebbe una personalità complessa e tormentata, tentò due volte il suicidio.
Il secondo titolo presentato dalla casa editrice e da poco in libreria – “Mary” di Anne Eekhout – si sofferma, invece, su due periodi della vita della scrittrice, quando ancora ragazzina si recò in Scozia presso una famiglia di conoscenti del padre e quando, pochi anni dopo, soggiornò in Svizzera nella primavera estate del 1816.
Il periodo svizzero fu quello durante il quale nacque l’idea e iniziò a prender corpo “Frankenstein o il moderno Prometeo” (1818) con cui Mary Shelley creò il primo dei due generi letterari cui diede i natali, quello della fantascienza, al quale fece seguito quello apocalittico inaugurato con il romanzo “L’ultimo uomo” nel 1826.
Quando si racconta di un libro che si è letto, consciamente o inconsciamente, si racconta anche di sé stessi proiettando la propria esperienza all’interno delle pagine fino a fondere le personali impressioni con la storia.
L’esperienza del leggere non è mai neutra, va sempre inquadrata in un contesto di cui è parte e si nutre. Quando chi legge conosce bene la vita e le opere della protagonista di una biografia, si è soffermata sulla storia familiare, i luoghi topici della sua esistenza, gli avvenimenti – e la genesi degli scritti che ne scaturirono – si accosta al testo con la prospettiva di una persona informata dei fatti.
Nel mio caso si aggiunge uno studio, intrapreso anni addietro, del mondo di Mary Shelley accompagnato e arricchito dal pellegrinaggio nelle località e le dimore in cui la scrittrice trascorse parte del suo tempo per meglio comprenderne la personalità, il carattere e le suggestioni.
Tale percorso personale mi rende una lettrice coinvolta. Ed è da questo coinvolgimento che sorge la riflessione sull’essenza e il significato di una biografia romanzata che si definisce tale perché chi la scrive aggiunge, agli eventi documentati, personaggi, contesti, atmosfere e intrecci dando respiro e struttura a una trama degna di questo nome.
Far funzionare una biografia romanzata non è affatto cosa semplice e bisogna, perciò, distinguere tra lo studio dei documenti relativi a una persona realmente esistita e un romanzo che trae spunto dalla sua biografia.
La caratterizzazione romanzata non svilisce l’importanza della biografia, al contrario, la rende comprensibile, agevole e godibile riempendo lacune, smussando asperità e donando vivacità che catturano la curiosità.
La Mary del racconto di Ann Eekhout è una quattordicenne afflitta da un doloroso eczema che giunge in Scozia per trascorre un periodo di vacanza. Qui conosce la figlia del padrone di casa, Isabella, che ha reagito alla morte della madre chiudendosi in sé stessa.
Per lei Mary sviluppa una passione amorosa spingendosi verso una adolescenziale scoperta dell’erotismo e interessandosi alle leggende locali fino a intravedere una malefica personificazione nel cognato dell’amica, il marito della sorella maggiore, che rimasto vedovo chiederà la mano dell’oggetto della sua passione turbando i rapporti tra le due.
Parallelamente si dipana la storia vissuta anni dopo in occasione di un periodo trascorso in Svizzera con la sorellastra Claire, l’uomo sposato con cui è fuggita, il poeta romantico Percy Bhysse Shelley, Lord Byron e l’amico di questi John Polidori.
L’esperienza a Cologny, vicino Ginevra, si svolge durante quello che fu definito l’anno senza estate in seguito all’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, le cui ceneri arrivate negli strati superiori dell’atmosfera influirono sull’andamento climatico mantenendo le temperature basse e le precipitazioni piovose frequenti.
Costretti da tali eventi a trascorrere molto tempo in casa il gruppo una sera -secondo la ricostruzione fatta dall’analisi dei diari il 16 giugno – riunito nella villa Diodati, affittata da Lord Byron, decide di leggere i racconti tedeschi di fantasmi tradotti in francese nell’antologia Fantasmagoriana per poi raccogliere la sfida del padrone di casa: scriverne, ciascuno, uno dello stesso genere.
Il genere tedesco dei racconti letti nella sera tempestosa è lo Schauerroman – definito romanzo dell’orrore o da brivido – che più cupo del gotico inglese si sofferma sulla negromanzia, i tentativi del galvanismo per riportare in vita i cadaveri e gli interrogativi sull’origine della vita.
L’autrice crea un nesso logico tra i due periodi ipotizzando che la genesi del personaggio protagonista del racconto di Mary Shelley sia da rintracciare nella sua esperienza scozzese in cui si avvicinò alle leggende del luogo.
Lo stile narrativo è fluido e si propone di indagare gli stati d’animo dei personaggi tra cui quelli della protagonista spiccano sugli altri caratterizzandosi nei due momenti.
Mary appare dibattuta tra il richiamo del fantastico e l’orrido e la scoperta della sessualità nel periodo scozzese e imprigionata nell’ambiguità del rapporto a tre – con la sorellastra e l’amante – e annientata dalla perdita e il senso di colpa per la morte della primogenita durante il soggiorno svizzero. Sipario.
Mary Shelley, però, è un gigante con cui confrontarsi. La personalità e il carattere furono complessi, figlia di due filosofi anticonformisti e dalle idee radicali in conflitto con la società del proprio tempo crebbe con il peso di una importante eredità intellettuale e letteraria, con il senso di colpa derivante dalla convinzione di aver causato la morte della propria madre e – in seguito – quella dei propri figli, di non aver saputo cogliere i segnali dell’intento suicida di Fanny, la prima sorellastra cui era legata dalla condivisione della stessa madre, né di esser stata in grado di prevenire la morte di Percy.
Visse assillata dalla carenza di risorse economiche e dalle pressanti richieste di denaro del padre che, pur predicando l’avversione per il matrimonio e le convenzioni sociali, la disconobbe fino a quando non legalizzò il suo rapporto con Percy Bysshe Shelley.
Fu socialmente bandita dalla società inglese e vagò per Italia e l’Europa. In lei vi è una complessità di pensiero che si riversa nei romanzi, nella copiosa produzione di diari e lettere, nelle note a margine dei poemi di Shelley e di Byron e delle biografie che scrisse per mantenere sé stessa e l’ultimo figlio rimasto in vita: Percy Florence.
Lo stile, i molteplici piani di lettura cui si presta il suo lavoro, l’intreccio tra vita vissuta, retaggio familiare, esperienze all’estero, studio delle lingue e sofferenze psicologiche richiedono, a chi ne scrive, maturità e profondità di registro. Forse è questo che manca alla Mary di Anne Eekhout, la profondità.
Tra le pagine incontriamo una Mary che, per certi versi, riporta alla mente Alice e i suoi viaggi fantastici e per certi altri un personaggio preda della gelosia e dell’ossessione. La narrazione, pregevole nella sua scorrevolezza, non ha ancora raggiunto lo spessore necessario a sostanziare un soggetto come quello scelto.
L’intuizione secondo cui lo scenario dei ghiacci è fonte di ispirazione per il protagonista di quello che, nato come racconto diventerà un romanzo dal significato profondo e molteplice – una pietra miliare della letteratura – è giusta ma ne rappresenta solo la superficie.
Siamo in presenza di ben più di uno scenario d’ambientazione, Mary Shelley ereditò dalla madre la vertigine per la Natura, quel senso di stupore che sconfina nell’estasi e la trascendenza in presenza della perfezione della meccanica dell’universo, il senso del sublime che porta a riflettere sulla vita e la morte e può, talvolta, raggiungere tali abissi da condurre a smarrire sé stesse/i.
Allo stesso modo è giusta l’intuizione dei ricordi scozzesi cui Mary Shelley attinse per tratteggiare il mondo dei balenieri, della desolazione dei ghiacci e del mare nordico come altrettanto giusto è il richiamo all’interesse per gli esperimenti di Galvani ed altri sul potere dell’elettricità applicati ai cadaveri, ma non bisogna dimenticare la seconda parte del titolo del romanzo “il novello Prometeo” in cui è racchiuso il significato pregnante dell’opera.
“Frankenstein o il moderno Prometeo” è la lacerante riflessione sul rapporto tra il creatore e la creatura che, ancora una volta, rimanda al rapporto tra chi dà la vita e chi sopravvive. Chi è responsabile e deve farsi carico dei sentimenti e i bisogni affettivi della creatura: essa stessa o il/la suo creatore? Chi, oltre l’Essere supremo, può arrogarsi il diritto di dare la vita? Può forse farlo la scienza?
Il periodo scozzese di Mary fu, sì, occasione di osservazione del paesaggio e contemplazione della Natura ma non trascorse come una parentesi di vacanza poiché le indicazioni del padre, al signor Baxter che la ospitò, furono chiare: «Non desidero che venga trattata con particolare attenzione né che alcuno della vostra famiglia venga scomodato neppure un minimo per causa sua. Ci tengo a che venga allevata (sotto quest’aspetto) come un filosofo, addirittura un cinico. Questo amplificherà grandemente la forza e il valore del suo temperamento».
William Godwin teneva molto all’educazione della figlia su cui riponeva grandi aspettative. La mandò presso Baxter perché questi apparteneva, come lui, al movimento cristiano scissionista fondato da John Glas, movimento da cui Baxter fu cacciato, insieme con l’intera famiglia, dopo averne violato una regola basica circa il divieto di contrarre matrimonio con la sorella della moglie morta, cosa che fece suo genero David Boot sposando Isabella.
L’autrice lascia intravedere l’interesse – non ricambiato – di David Boot per Mary e leggendo le annotazioni di Godwin sappiamo che questi lo ricevette in visita. Sui motivi di tale visita si possono solo avanzare congetture, forse l’intento era chiedere consiglio in merito alle sue seconde nozze o forse chiese la mano di Mary. Sia come sia dopo il primo soggiorno durato cinque mesi Mary fece ritorno a Londra con una delle sorelle di Isabella, Christina, per ripartire con lei sette mesi più tardi ed essere nuovamente ospite della famiglia Baxter per ulteriori dieci mesi.
Mary in Scozia fu felice e per tutta la vita ricordò quello come un bel periodo, si allontanò dalla matrigna con cui non andava d’accordo, da un padre in cui non riconosceva più la tenera figura che ricordava, da due sorellastre con le quali – per motivi diversi – non era in sintonia.
Fu sorpresa e beneficiò della libertà di cui godevano le sorelle Baxter, affinò le doti di sensibilità nel “sentire” la Natura e cominciò a scrivere i suoi primi componimenti. In Svizzera, con il concepimento della figlia di Claire e Lord Byron, si avvia l’intreccio esistenziale che vedrà unite le sorti di Mary e della sorellastra con quelle di Percy fino alla morte di quest’ultimo.
In conclusione Eekhout, come è giusto che sia, racconta la sua Mary aggiungendo una nuova interpretazione alla storia di una scrittrice di grande talento.
Due note a margine: l’appellativo di Albe con cui l’autrice si riferisce a Lord Byron fu coniato da Mary e Percy giocando sulla pronuncia delle iniziali LB e – la seconda – il racconto che John Polidori scrisse raccogliendo la sfida di Villa Diodati, Il Vampiro, pubblicato sulla rivista New Monthly Magazine nel 1819 aprì il filone letterario sui vampiri attribuendo loro caratteristiche e temi come ancora oggi li conosciamo.
IL LIBRO
Anne Eekhout, Mary,
Neri Pozza
Tradotto da Laura Pignatti,
pagine 366 euro 19,00
L’AUTRICE
Anne Eekhout, nata nel 1981, ha esordito nel 2014 con il romanzo Dogma, finalista al premio Bronzen Uil per la migliore opera prima in lingua nederlandese. Nel 2017 ha pubblicato Op een nacht (Una notte), selezionato per il BNG Literature Prize, destinato agli scrittori sotto i quarant’anni, e nel 2019 Nicolas en de verdwijning van de wereld (Nicolas e la scomparsa del mondo), nominato al premio Beste Boek voor Jongeren per giovani adulti.
le altre biografie tra #ledisobbedienti: