«Sono le donne le più tenaci custodi della tradizione. Da tempo immemorabile esse hanno curato la loro bellezza, spesso a prezzo di sofferenze e sacrifici dettati da canoni per noi incomprensibili» è la dichiarazione d’apertura di Anna Alberghina nel libro “Donne in bilico. 100 ritratti di donne di culture non globalizzate” pubblicato da Magenes.


L’autrice nella vita lavorativa ha scelto la professione medica ma nel tempo d’elezione segue la sua passione per i viaggi, l’etnografia e la fotografia, da questi suoi interessi ha preso vita il progetto di una mostra e della pubblicazione del libro che sostiene le attività dell’associazione “Libertà di essere Donne Vive” nel contrasto alla violenza nei confronti di donne e minori. I suoi ritratti catturati con l’obiettivo in Africa, Asia e America latina mostrano volti di bambine, fanciulle e donne.

Il seno legato di una donna Mucuval in Angola

Nella società dell’immagine in cui i messaggi visivi si affastellano sovrapponendosi c’è, per chi sappia riconoscerlo, uno spazio vivificante di fotografia pregna di significati, una scrittura iconografica che spalanca finestre su mondi sconosciuti. Fotografie che inducono alla riflessione smuovendo ricordi, sensazioni, dubbi, interrogativi e idee.

Bambina Afar in Dancalia


Quelli che bucano le pagine del libro sono volti intensi, segnati dalle intemperie delle regioni estreme dove vivono e dalla vita, che fissano lo sguardo fiero verso chi osserva. Qualcuna tra loro sorride mentre, la maggior parte, esprime una muta consapevolezza.
Giunta all’ultimo anno di liceo mi domandai in che direzione avrei voluto proseguire gli studi, un pensiero, subitaneo, si fece strada nella mia mente: un approccio multidisciplinare era lo strumento che desideravo per imparare a leggere il mondo tenendomi lontana dalla trappola di una visione parziale. Fu così che nel piano di studi universitari inserì due esami di antropologia che, in questi giorni, nella lettura e la comprensione del lavoro di Alberghina mi sorreggono fornendo le necessarie coordinate.
Ogni civiltà, ogni modello sociale sceglie regole di comportamento, usi e consuetudini che conferiscono identità e attribuiscono valore, queste possono essere simili o molto lontane da quelle con le quali abbiamo familiarità.
Troppo spesso, purtroppo, non ci si sofferma il tempo necessario a cercare informazioni utili a conoscere l’altro da noi limitandosi a giudicare con rapidità e ignoranza. I canoni estetici sono il distillato di leggende, miti, tradizioni, riti, meccanismi di protezione dal pericolo e influssi artistici che in alcune società cambiano nel corso degli anni, talvolta velocemente, e in altre permangono immutate nei secoli.

Fanciulle saudite

Cosa accade a quei gruppi etnici sempre più marginalizzati, costretti a vivere in lande impervie che rifiutano la feroce globalizzazione? Quelle che per sopravvivere devono ritirarsi in spazi angusti e privi di risorse? Rischiano di esser cancellate, spazzate via e dimenticate. Le loro lingue, il patrimonio immateriale di storie e racconti orali, i riti, le usanze e il bagaglio identitario custodito e tramandato nei secoli si disperderebbe come sabbia nel vento se non ci fosse qualcuno a documentarlo, raccontarlo e mostrarlo.

Donna Kuna in Panama
Spettacolo di danze tradizionali in Kazakihstan


L’autrice cammina nei mercati, si ferma ai margini del deserto, visita luoghi inospitali e villaggi per fermare le espressioni di volti femminili che indossano acconciature, monili e abiti che testimoniano la storia del popolo cui appartengono, donne che si adornano il viso con pitture corporee, tatuaggi e scarnificazioni.
Conosciamo le sacerdotesse komian che in Costa d’Avorio, cospargendosi il volto e il corpo di caolino, hanno mantenuta intatta la prerogativa cancellata con il fuoco in Occidente, quella per cui le donne che praticavano l’uso della conoscenza delle piante officinali venivano bruciate come streghe, qui no, qui studiano per divenire apprezzate guide spirituali cui affidarsi, qui il legame tra donne-sapienza-natura e spiritualità non è stato annientato perché temuto.
Incontriamo le donne Mumuila, un gruppo di origine Bantù che vive tra il sud dell’Angola e il nord della Namibia, con il loro sorriso privo di incisivi perché retaggio dell’estrazione praticata al fine di somministrare il nutrimento ai pazienti affetti da tetano e le Herero delle regioni settentrionali della Namibia con indosso inaspettate crinoline eredità dell’imposizione dei missionari tedeschi per coprirne il petto.

Donna Akha in Laos

Sfogliando le pagine avvertiamo l’inquietudine trasudante dalle fotografie scattate in Pakistan e in India che ritraggono donne nascoste dal burqa – donne la cui esistenza appare solo come cifra della volontà maschile di negazione -e poi il Tibet, la Cina, l’Indonesia e il Giappone fino al Guatemala e la Colombia.
Cosa lega tutte queste donne di età differenti che vivono a latitudini diverse? L’impegno, la fatica e la tenacia con cui mantengono viva l’identità della propria appartenenza etnica, la consapevolezza del fardello che le accompagna, la volontà di non omologarsi a un modello anonimo nel quale non si riconoscono, la quotidiana battaglia per la sopravvivenza in un mondo che corre velocissimo verso mete ai loro occhi prive di significato. In una società planetaria che elabora e perpetua modelli conformanti per estetica, comportamento e valori c’è chi si oppone e resiste difendendo la propria storia e identità, il proprio diritto ad essere e vivere affermando la diversità. Ci muoviamo su un terreno dove lo scivolamento verso retorica, buonismo e polically correct è cosa semplice.

Bimba Karimojong con la sorellina in Uganda

Non mi interessa scrivere qui di post colonialismo e femminismo, quel che mi preme è invitare chi legge a guardare le fotografie con occhio scevro da pregiudizio e paludamenti europacentrici. La bellezza dei volti ritratti non è nel colore o il taglio degli occhi, la conformazione degli zigomi, dell’ovale o nelle fattezze del naso no, la bellezza che vedo in questi volti è la consapevole determinazione ad affermare il diritto di essere sé stesse – per alcune – e l’impossibilità di vedere alcunché per quante costrette a negarsi alla vista altrui e a restringere, fino a soffocare, la propria.
Sguardi intensi, pacati, tormentati, allegri, pensierosi, liberi, imbrigliati. Sguardi di donne che camminano in diversi angoli del mondo e compongono le tessere di un mosaico che Alberghina ci mostra per mantenere viva l’attenzione sull’importanza di contrastare il pensiero unico e l’omologazione globalizzante assicurando la difesa di popoli e culture altre. Dal 15 dicembre le fotografie scelte per il libro sono in mostra al MAS, Museo d’Arte e Scienza di Milano.
©Riproduzione riservata 
IL LIBRO
Anna Alberghina,
Donne in bilico. 100 ritratti di donne di culture non globalizzate,
Magenes
Pagine 248
euro 25,00
L’AUTRICE
Anna Alberghina è nata a Torino dove vive e lavora come medico. Da sempre affascinata dall’etnografia e dalle arti primitive, si appassiona al fotoreportage di viaggio. Il suo stile fotografico è caratterizzato da una predilezione per il ritratto con particolare attenzione all’universo femminile. Collabora con numerose associazioni culturali e riviste di viaggio. Da quarant’anni viaggia in tutto il mondo attingendo sempre nuova linfa dall’amore.


Nella foto di copertina, l’autrice con una donna Akha nel Nord del Laos

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