«Il cognome è stato per me il simbolo di quello che una donna non poteva fare o avere o essere. Doveva esserci un legame fra la questione del cognome e il fatto che mia madre si occupasse solo della famiglia e della casa, che fosse sottoposta alle decisioni di mio padre, che avesse un ruolo di secondo piano» sono le parole scritte da Grazia Speranza ne “Il cognome delle donne” pubblicato da E-sordisco Astro edizioni, un racconto di esperienze vissute che arricchiscono il dibattito sulla parità di genere.
Ognuna di noi che si interessa al tema e ne scrive, parla e discute giungendo a orientare le sue scelte lo fa partendo da un aspetto dell’asimmetria uomo/donna del modello sociale nel quale vive e di cui avverte il peso come insopportabile e non più tollerabile.
Per l’autrice la scintilla che ha dato fuoco alle polveri è stata l’illogicità della trasmissione del solo cognome paterno ai figli, valido motivo per interrogarsi sulle ragioni che discriminano le donne. Il racconto del regalo fattole dalle figlie in occasione di un compleanno, l’aver presentato istanza per aggiungere all’anagrafe il suo cognome a quello del marito, è il motivo per confrontarsi con colleghe straniere– professoresse universitarie in discipline matematiche e Stem –sulla normativa vigente nei loro paesi e sulle reciproche esperienze lavorative.
I temi affrontati sono quelli classici sui quali tutte noi da anni ci poniamo domande: l’educazione familiare che insegna alle bambine a essere docili e ai bambini intraprendenti e competitivi, i modelli stereotipati che vengono proposti nel percorso scolastico e scoraggiano le donne dallo studio delle materie scientifiche, la necessità per le donne di dover dimostrare di essere sempre all’altezza e sempre più brave, la mancanza di autostima che ci penalizza nell’autopromozione e l’autocandidatura a profili professionali di livello elevato e ci frena quando all’orizzonte si profila la possibilità di proporci per premi e riconoscimenti, il bisogno di mimetizzarsi attraverso la scelta di un abbigliamento minimal che nasconda la femminilità, la stigmatizzazione sociale per le donne che scelgono di non avere figli, la divisione dei carichi di lavoro tra coniugi e la pressione sociale affinché sia la donna a svolgerne la maggior parte, il linguaggio di genere e il doppiopesismo sempre in agguato.
Pensiamo a quanto spesso ci imbattiamo in questo notando la differenza delle considerazioni svolte dalle persone secondo le quali a parità di comportamento un uomo è ambizioso e una donna arrivista, un uomo è determinato e una donna ostinata, un uomo è tenace e una donna testarda.
Tutte le caratteristiche che le persone esprimono nel mondo del lavoro assumono una valenza di segno opposto se patrimonio di un uomo o di una donna, un uomo che esce prima dal lavoro per andare a vedere il saggio di fine anno di un/a figlio/a è un genitore encomiabile e riscuoterà la benevolenza di tutti i colleghi e colleghe, una donna che esce prima dal lavoro per lo stesso motivo è inaffidabile e non sa organizzare il suo ménage familiare senza arrecare danno al ruolo ricoperto.
Lo stile colloquiale e scorrevole di Speranza è quello di chi vuol condividere esperienze per generare modelli e azioni positive al fine di incidere attraverso un cambiamento, quel cambiamento che nella sua carriera accademica ha avuto modo di innescare e/o coltivare. Il testo è un invito al confronto che accetto con piacere, se paragono la sua esperienza alla mia trovo diverse similitudini e qualche divergenza.
Come lei ho svolto una carriera professionale in ambiti, per lo più, maschili e allo stesso modo ho lottato e lotto per scardinare gli stereotipi che oggi – grazie al rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale- si propagano attraverso bias cognitivi, fino ai trentacinque anni ho adottato un abbigliamento e uno stile utile alla mimetizzazione con pantaloni, giacche, mocassini bassi, colori neutri e accessori poco vistosi, dopo ho fatto mia la lezione di Marisa Bellisario e sicura di me stessa e delle mie capacità ho cambiato rotta esprimendo a pieno la femminilità che è parte non sacrificabile della mia identità.
Come lei quando mi chiedevano – o meglio mi accusavano – di essere femminista sputandolo come un insulto mi domandavo perché l’esserlo fosse nell’immaginario collettivo accomunato a fenomeni di isteria di gruppo volti a mortificare e castrare i maschi.
Come lei mi sono soffermata sulle caratteristiche che differenziano le donne e gli uomini nel mondo del lavoro e da anni, nelle aule di formazione in cui entro e nei convegni ai quali mi invitano, spiego che non esiste una economia maschile e una femminile ma un diverso approccio al lavoro e che no, le imprenditrici non sono più conservatrici dei loro colleghi ma hanno una pari propensione al rischio e sono più interessate al raggiungimento di un clima disteso non perché biologicamente programmate per essere accudenti e materne ma perché consapevoli che questo comporta una maggior gratificazione e motivazione che si traduce in produttività, fidelizzazione e spirito di squadra.
Diversamente dal suo modello di riferimento femminile familiare, una madre che ha rinunciato al lavoro per dedicarsi alla famiglia dipendendo economicamente dal marito, nel mio caso una madre americana mi ha instillato i germi dell’indipendenza spingendomi a credere in me stessa e immaginare di scegliere il lavoro che più mi piacesse mantenendo, sempre, un’autonomia di pensiero e azione.
Speranza scrive: «Se ti comporti bene, docilmente, sei socialmente accettata, ma non meriti una promozione perché non sei autonoma. Se sei intraprendente diventi inaffidabile. Noi dobbiamo essere disponibili, aiutare le altre persone, servire. Ma quando lo facciamo, diventiamo meno meritevoli di rispetto e di promozione. Se un uomo è concentrato su di sé viene giustificato: se vuole competere in questo mondo è necessario esserlo. La donna che si impegna per la propria carriera è vista invece come una strega».
La parola più usata- ammettiamolo- non è strega, è stronza, non lo ha scritto l’autrice, lo faccio io. L’esperienza di Speranza si inserisce nel contesto accademico della pubblica amministrazione, avendo sperimentato sia il settore pubblico che quello privato posso affermare che in quest’ultimo il gender pay gap è ancora più marcato, la frenata del percorso di carriera in seguito a una maternità più brusco e la possibilità della flessibilità viene presa in considerazione da alcuni/e imprenditori/trici illuminate solo dopo l’emergenza pandemica.
Il processo di cambiamento culturale è lento ma procede, pochi giorni fa Yvette Cooper, ministra degli Interni del governo britannico, ha annunciato di aver dato il via a una revisione delle misure previste dalla strategia antiterrorismo ricomprendendo in esso la misoginia come forma di estremismo, è il caso del fenomeno denominato “incel”, o “celibato involontario”, una sottocultura sviluppatasi online in cui una visione del mondo misogina è promossa da uomini che incolpano le donne per la loro mancanza di opportunità sessuali.
Il web è un brodo di coltura che regala frotte di adepti. Il termine misoginia, dal greco antico μισέω misèō “odiare” e γυνή gynḕ “donna” si riferisce a tutti coloro che odiano le donne senza far differenza di genere. Sarà interessante vedere gli esiti di queste misure.
Una parola la spendo sul tema affrontato da Speranza circa le rilevazioni europee degli indici sui gap uomo/donna in cui la Finlandia svetta sempre ai primi posti. Occupandomi della materia da diversi anni ho colto l’occasione, nel 2021, di partecipare a un progetto Erasmus+ sullo scambio di best practices cui hanno partecipato Italia, Francia, Olanda, Romania e Finlandia e dopo diversi mesi di lavoro basati sul confronto di ordinamenti giuridici, contrattazione privata, politiche pubbliche, iniziative del Terzo settore e fenomeni migratori si sono rese disponibili informazioni e osservazioni tali da farmi ripensare il modo in cui gli indici vengono stilati. ll Global Gender Gap elaborato dal World Economic Forum nel 2021 segnala l’Islanda al primo posto seguita dalla Finlandia.
L’Italia si posiziona al 63simo posto. 63esimo… non è confortante. I dati, però, vanno interpretati. Il Global Gender Gap si propone di elaborare una classifica dei Paesi in base alla parità di condizioni tra uomini e donne e non di classificare quelli dove le donne vivono meglio. Sembra scontato ma, a volte, quel che appare tale non lo è per tutti e allora è bene soffermarsi.
L’elaborazione della classifica è basata su dati forniti dai singoli Stati e a ognuno di questi è accordata la facoltà di scegliere i set di indicatori, le modalità di rilevazione, di trattamento e di analisi dei dati, le fondamenta della costruzione sono, pertanto, poggiate su un terreno scivoloso perché eterogeneo.
Il sistema, inoltre, è regolato dall’attribuzione di punteggi che risulta penalizzante per alcune nazioni, è il caso dell’Italia dove il maggior numero di ragazze laureate – in tempi brevi e con ottimi risultati – non può spostare la bilancia più di un tot facendo da contrappeso alla scarsa presenza di donne in ruoli istituzionali.
Ma, alla fine, il tetto di cristallo – alcune studiose graduano il fenomeno in vetro e cristallo secondo la resistenza e la difficoltà – lo abbiamo infranto? A fiutare l’aria si percepisce una certa insofferenza sull’argomento come a dire la parità l’avete avuta e basta, che noia, sempre a lagnarvi adesso pedalate! Ma, troppo spesso, gli argomenti vengono tratti solo superficialmente senza dotarli del necessario spessore perciò no, se scalfiamo la superficie vediamo che la parità non è stata raggiunta e sì pedaliamo come sempre, il problema è che secoli di educazione hanno inculcato l’idea che le donne non devono chiedere ma aspettare che siano gli altri – graziosamente – a riconoscere e concedere, dobbiamo essere mansuete.
Le donne aspettano, aspettano che chi di turno detiene il potere decisionale riconosca i loro meriti e provveda a gratificarle con un aumento di stipendio, una promozione o un premio di produttività che gli uomini chiedono mentre le donne no, le donne li aspettano fiduciose. Questo è il motivo per il quale, da anni, organizzo seminari sulla negoziazione in cui imparare a proporsi alla stregua di quanto fanno i colleghi, non è più il caso di aspettare. Questo è il motivo per il quale in libreria si vedono sempre più titoli che incitano le ragazze alla trasgressione, a non fare più le brave, alla disobbedienza, invocazioni intese a mettere in discussione un modello sociale asimmetrico nel quale alle ragazze viene insegnato come essere, non intraprendenti, ma resilienti. “Resilienza” è una parola subdola che si presta a innescare la trappola delle aspettative che tiene in ostaggio bambine, ragazze e donne perché come scrive Speranza: « Le ragazze sono diligenti, ma sono i ragazzi a essere brillanti». Essere diligenti non basta, non aiuta nel fare carriera e non comporta gratifiche tangibili.
Nella prefazione Chiara Saraceno cita l’esempio delle donne americane che si firmavano usando non solo il cognome del marito ma anche il nome anteponendo a esso Mrs., lo faceva mia nonna annullando la propria identità e mia madre lo aborriva, perciò quando fu il suo turno firmò con il suo e poi quello dell’uomo che aveva sposato, io ho usato sempre e solo il mio, quello di mio padre, ma diverse volte mi sono domandata perché non potessi usare anche quello di mia madre.
©Riproduzione riservata
IL LIBRO
Grazia Speranza
Il cognome delle donne
E-sordisco Astro edizioni
pagine 252
euro 17,58
L’AUTRICE
Grazia Speranza è professoressa ordinaria all’Università di Brescia, dove è stata Preside della Facoltà di Economia e Prorettrice vicaria. È stata Presidente dell’associazione europea delle società scientifiche di ricerca operativa (EURO) e di quella mondiale (IFORS). È membro del Consiglio di Amministrazione di a2a.
Si occupa di algoritmi di ottimizzazione e di machine learning per la riduzione dell’impatto ambientale del trasporto merci e per la mobilità sostenibile. È autrice di oltre 200 articoli scientifici.
È stata scelta dal progetto ‘100 esperte’ come una delle migliori ricercatrici italiane nell’area STEM ed è citata nella classifica “World’s 2% Top Scientists”. Ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università di Friburgo (Svizzera). È stata premiata come ‘Italian Knowledge Leader’ ed è membro dell’Accademia delle Scienze di Bologna.
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