Un romanzo struggente e potente. “Il profumo dei giorni perduti” pubblicato da Piemme dove Ondine Khayat, attraverso la storia della propria famiglia, racconta l’orrore del genocidio armeno. Cosa salva le persone dall’annientamento? L’identità, la consapevolezza delle proprie radici, la memoria dell’appartenenza culturale a una comunità. Tramandare le storie è l’attività, che dalla notte dei tempi, contraddistingue il genere umano e sono, soprattutto, le donne a sentire l’urgenza e l’importanza di consegnare il proprio patrimonio identitario alle giovani generazioni.
L’autrice ricostruisce il rapporto tra quattro generazioni di donne con un stile narrativo poetico dominato dalla memoria olfattiva. Il dna non mente, è così la dote di riconoscere gli odori e armonizzarli creando profumi passa, nel tempo, dall’una all’altra delle donne di famiglia corredata dalla sensibilità e la capacità evocativa dei ricordi che affiorano attraverso la percezione olfattiva che scatena sensazioni. Quante volte ci è capitato di annusare l’aria perché catturati/e da un profumo sepolto nei ricordi legato a una pietanza, un luogo o una persona?
Non sempre il risveglio della memoria fa riaffiorare avvenimenti felici ma, in nessun caso, tradisce: «Aveva sempre fatto così, ogni avvenimento, lieto o spiacevole, per lei era associato a un odore particolare, vivo, che la proteggeva dalla violenza del mondo e delle sue emozioni. Aveva imparato a fiutare gli eventi prima di percepirli».
Taline, la più giovane delle donne protagoniste del libro, scopre alla morte dell’amata nonna la storia di famiglia attraverso dei taccuini che questa le lascia, in lei crolleranno certezze e si apriranno squarci di comprensione, compirà un viaggio a ritroso che le consentirà di comprendere l’importanza delle radici e della costruzione del percorso identitario: «Ma si può vivere senza memoria? […] Non dimenticare mai le tue radici, Louise. Sono la base da cui puoi prendere il volo. Senza radici, voliamo in modo disordinato nel cielo».
Quanto può essere forte il desiderio, la necessità, di una certezza identitaria? Magari non la si avverte con ugual intensità e premura lungo tutto l’arco della vita perché questa ci accompagna come un fiume carsico che solo a tratti emerge ma, di certo, in ogni momento scava, modella e dirige il fluire del tempo.
Ho amato leggere questo libro per diverse ragioni, la prima è legata alla mia sensibilità olfattiva, fin da bambina avverto gli odori in modo amplificato, fino a diventare talvolta molesti, legandoli e archiviandoli a doppio filo con i diversi momenti in cui questi mi raggiungono, la seconda è l’interesse che nutro per la trasmissione della memoria identitaria nelle famiglie e nelle comunità che hanno vissuto momenti traumatici di fratture e allontanamenti come nel caso di emigrazioni, eventi bellici, calamità naturali, la terza riguarda l’esser nata a cavallo tra due culture comprendendo l’esercizio di equilibrio che questo richiede insieme con l’opportunità che accorda di accedere a chiavi di lettura non univoche.
La quarta è la passione per l’arte del racconto che si impone come strumento lenitivo per evitare che frammenti di ricordi ed avvenimenti si perdano mutilando la trasmissione generazionale di un corredo di aneddoti, ricette, proverbi, gestualità, ricorrenze, immagini, dolori e gioie che danno, ad ognuno, modo di comprendere sé stessi approfondendo la misura del proprio bagaglio. In molti e molte aspiriamo alla felicità ma concordo con la maturità della riflessione di Khayat quando scrive: «Non sono felice, sono consapevole».
Essere consapevoli è un traguardo cui tendono le persone che non hanno timore di conoscere, fin in fondo, chi sono e da dove vengono. Infine l’ultima ragione per cui consiglio la lettura di questo romanzo è la centralità che l’autrice riconosce alla parola come strumento principe dell’esistenza dotato di un potere salvifico perché mezzo espressivo capace di contenere ogni più tenue sfumatura delle umane vicende.
La narratrice che svelerà la storia di famiglia a Taline, Louise la bisnonna, sopravvive al dolore, alla rabbia, alla violenza ed evita di scivolare nell’abisso della follia, grazie alle parole che scrive per gli altri e per sé stessa.
Di fronte all’orrore le parole si pietrificheranno incapaci di descrivere sensazioni in contrasto con le ragioni della vita, la gioia e il piacere del racconto svaniranno lasciando solo spine e desiderio di oblio, ricominciare ad usarle richiederà coraggio e forza.
Di fronte all’oscurità le parole tacciono, ammutoliscono e scavano nell’anima ferita. Nella società liquida descritta da Zygmunt Bauman il richiamo alle radici diventa sempre più frequente e la potenza delle storie che creano legami acquista significato e valore.
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IL LIBRO
Ondine Khayat
Il profumo dei giorni perduti
Piemme
traduzione di Maria Moresco
pagine 443
euro 22
L’AUTRICE
Ondine Khayat è nata nel 1974 da madre francese e padre armeno. Attualmente vive a Parigi, dove collabora con varie ONG per la realizzazione di progetti umanitari. Per Piemme ha già pubblicato Le stanze di lavanda.
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