Quando mi sono imbattuta nella storia della marchesa Casati mi si è accesa una gran curiosità per la vita di una donna così fuori dagli schemi. Guardando le fotografie e i dipinti che la ritraggono l’impressione che ne ricavavo era quella di un personaggio più che di una persona, una finzione scenica più che una donna reale.
Avvertivo il bisogno di saperne di più, di andare oltre la superficie. Marta Morazzoni ne “Il rovescio dell’abito” pubblicato da Guanda racconta un momento preciso della vita di Luisa Adele Maria Elvira Amman, divenuta con il matrimonio, marchesa Casati Stampa di Soncino.
Il momento della vita scelto dall’autrice per il suo scrivere è l’inizio della fine, l’orlo del gorgo che si scorge affacciandosi sull’abisso. La marchesa, dopo aver dissipato l’enorme ricchezza ereditata dai genitori morti prematuramente, subisce la confisca di tutti gli averi. Il suo destino è chiaro: deve rassegnarsi a vivere della generosità di amici e parenti. Ma di destino si tratta o di scelte consapevoli?
Morazzoni costruisce il testo narrativo su un triangolo: due uomini e una donna. I primi sono l’avvocato che ne ha sempre curato gli affari e l’ex marito, il marchese Camillo Casati, la terza è lei, la marchesa Luisa Casati.
Nelle pagine, attraverso flash back, riviviamo sprazzi della vita di una donna con un carattere dalla non facile decifrabilità. Anaffettività, narcisismo, egoismo e timidezza sono solo alcuni degli aspetti della personalità che emergono ma, tra le righe, affiora un di più che rischia di sfuggire a una lettura frettolosa.
Emula della Contessa di Castiglione, la marchesa Casati orchestrava le sue apparizioni per proiettare una immagine di sé, concepiva scenografie che destassero stupore e usava la moda, l’abbigliarsi, come strumento teatrale: «Il suo era un corpo prestato alla messa in scena di altre vite: la Contessa di Castiglione, Cagliostro, Maria Antonietta, Elisabetta imperatrice: uomini e donne non faceva differenze, il suo sesso non aveva esigenze, la sua figura era docile alle metamorfosi».
Voleva far di sé un’opera d’arte vivente e costituiva la propria identità aggiungendo all’immagine di sé quella che le restituivano gli artisti, i fotografi e gli scultori cui chiedeva di essere ritratta: Boldini, Bakst e Adolf De Meyer solo per citarne alcuni. Guardarsi e farsi guardare sono aspetti complementari nel processo di costruzione identitaria e lei abbisognava di entrambi, del secondo -forse – ancor più del primo. Il modo in cui concepiva sé stessa richiedeva lo sguardo degli altri, di quegli altri che portavano conferme al suo essere.
Amica dei futuristi come Marinetti e Balla e amante di Gabriele D’Annunzio traeva spunto dall’osservazione del talento artistico e se gli altri il colore lo stendevano sulla tela lei lo declinò sul proprio volto: il bianco gessoso della cipria, il rosso sangue del rossetto, il nero del bistro per gli occhi e il rosso fuoco della tintura dei capelli.
La sola immagine del corpo non bastava a dare spessore a un personaggio, affinché ciò avvenisse era necessario accompagnarvi atteggiamenti, comportamenti ed azioni. Le sontuose feste, le stramberie come le passeggiate notturne con un ghepardo al guinzaglio e un servitore nubiano scalzo e semi svestito a illuminarne i passi tra le calli veneziane, le apparizioni con costumi ad effetto e il serraglio di animali esotici nei giardini di palazzo Venier, che diventerà dimora di un’altra donna fuori dall’ordinarietà come Peggy Guggheneim, erano modalità attraverso le quali conferire sostanza e tridimensionalità all’immagine.
L’estetica fu elevata a filosofia di vita in ogni aspetto della quotidianità, non solo gli abiti ma anche l’arredamento e gli oggetti di uso quotidiano come i piatti e i bicchieri dovevano essere espressione di ricercatezza.
Nelle pagine di Morazzoni non si legge di eccentricità o delle tinture imposte, secondo l’ispirazione del giorno, ai servitori nubiani o gli uccelli ma di come venga percepito il traumatico passaggio da un tenore di vita a un altro, della pragmaticità dei due uomini e dell’indefinibile compassato distacco della marchesa, quasi che gli accadimenti non la riguardassero.
Il gioco di contrapposizioni tra i personaggi si compone di confronti tra modi di essere e concepire la vita. “La Luisa”, come spesso la troviamo citata nel libro, non è svampita né incapace di intendere e di volere ma semplicemente abituata a percepire la realtà con canoni altri rispetto al resto dei suoi simili: «Tenta di tracciare rette con il righello ma finisce per disegnare spirali, capisce che la sua natura non è tale da tracciar rette».
La marchesa Casati guarda il mondo attraverso una lente sconosciuta all’avvocato che fatica a comprendere, decifrare, mentre l’ex marito ha perso interesse nel farlo, la ritiene troppo distante e diversa, si erano conosciuti per accordi matrimoniali combinati dalle rispettive famiglie e non per affinità elettive.
«Non c’era bisogno di vivere passioni travolgenti, era la calma la misura delle cose. La loro durata» questo è il confortante pensiero sul quale medita il marchese pensando al suo tranquillo secondo matrimonio, uno stato dell’animo, più che uno status legale o sociale, assai differente dalla sua prima esperienza coniugale.
«Non ho mai amato nessuno come i miei cani» è un’altra affermazione di questi che ne segna la siderale lontananza dalla prima moglie, il rapporto con gli animali è vissuto dai due in maniera diametralmente opposta a sottolineare una inconciliabilità di vedute.
Per il primo è affetto, tranquillità domestica di una dimora in campagna, per la seconda messa in scena, esotismo e necessità di originalità.
Il marchese si ritiene un uomo semplice, dai gusti e i desideri ordinari. All’avvocato Bassi, l’autrice affida il compito di personaggio di snodo che interviene a definire e tratteggiare le figure della marchesa e dell’ex marito. Benché non investito ufficialmente di alcun incarico, né dall’insolvente marchesa né dal disinteressato marchese, egli si sente umanamente coinvolto nel tentativo di salvare il salvabile in una situazione che si avvia verso un triste quanto scontato epilogo.
È un uomo che vive del suo lavoro, senza affetti né pretese, a cui la frequentazione della coppia, non più tale in senso stretto ma nella costruzione del racconto, svela aspetti della propria vita come la solitudine: «Ma non era una questione di soldi che a lui non sarebbero mancati, era… che le cose si devono fare con gli altri» o la pericolosità della democrazia, «Il Bassi si domandò se non gli facesse paura la democrazia, che metteva tutti sullo stesso piano con una ipocrisia di fondo insanabile».
L’avvocato si sforza di capire l’atteggiamento della marchesa mentre il marchese non ne ha bisogno poiché ha maturato la consapevolezza che il modo in cui l’ex moglie concepisce la vita si fonda su canoni interpretativi assai diversi da quelli degli altri, in lei non si colgono quei segnali di atterrito sgomento che la rovina finanziaria avrebbe su altre persone poiché queste stesse persone non hanno mai visto né vissuto la vita come lei, è l’alfabeto emotivo e intellettivo ad essere divergente. Persone che parlano lingue diverse in modelli culturali differenti.
Il libro, scritto con maestria e mestiere, merita una lettura attenta che permetta di cogliere le perle disseminate nei dialoghi: «Ieri lei sarà stato con i suoi fratelli immagino – disse il marchese – Non avrei osato invitarla, ma il giorno dopo le feste importanti, voglio dire, a me pare il giorno più bello, libera la coscienza dal dovere di celebrare».
Quanti di noi si sono dibattuti, o ancora si dibattono, tra la tensione verso la libertà e i doveri familiari di condivisione del desco nelle ricorrenze annuali, la libera coscienza dal dovere di celebrare è una di quelle libertà che si conquista con il tempo, l’età e la saggezza che sfuggono in gioventù. Così come con il trascorrere degli anni si acquista la profondità per comprendere la differenza con cui si guarda alle fotografie, istantanee di un tempo passato che restituiscono suggestioni e ricordi: «Bisogna aver dentro una dose massiccia di felicità per guardare il mondo in questo modo, non trova?» chiede al marchese Casati uno sconosciuto al Racing Club di Parigi al Bois de Boulogne guardando foto che colgono attimi sportivi in cui donne si librano in aria prima di tuffarsi in acqua o si elevano sul campo da tennis per intercettare una pallina.
Le fotografie del passato ci fanno provare affetto per le persone ritratte o per quel che eravamo noi a quel tempo? Il dubbio può sorgere ma non alla marchesa: «Le dee non muoiono, passano, e quel che lasciano indietro al loro passaggio è qualcosa che non ha a che fare con la memoria, è piuttosto un’ostinata, materica persistenza. Questo aveva sempre pensato di sé».
©Riproduzione riservata
IL LIBRO
Marta Morazzoni,
Il rovescio dell’abito,
Guanda
Pag 256 euro 18,00
L’AUTRICE
Marta Morazzoni, nata a Milano, ha insegnato lettere in una scuola superiore. La ragazza col turbante (1986), il suo primo libro, ha avuto uno straordinario successo critico in Italia e all’estero, ed è stato tradotto in nove lingue. L’invenzione della verità è stato premio selezione Campiello nel 1988, Casa materna nel 1992. Il caso Courrier ha vinto il premio Campiello nel 1997 e l’Independent Foreign Fiction Award nel 2001. Fra i suoi libri anche: L’estuario (1996), Una lezione di stile (2002), Un incontro inatteso per il consigliere Goethe (2005), La città del desiderio. Amsterdam (2006), La nota segreta (2010) e Il fuoco di Jeanne (2014) e Il dono di Arianna (2019), vincitore del Premio Chiara. Nel 2018 ha vinto il premio Campiello alla Carriera.
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