Le disobbedienti/ Renée Vivien, Saffo della Bella Époque: poeta tormentata dal mal di vivere. La sua storia in un libro di Teresa Campi

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«La disuguaglianza giuridica, sociale e culturale delle donne, il loro forzato adeguamento alle leggi degli uomini era, a suo parere, la madre di tutte le iniquità perché attraversava popoli, razze, credenze religiose ed era pressoché universale […] Tutti i mali provenivano dall’ignoranza in cui venivano relegate le donne, la loro mancanza di cultura generale e da qui l’appiattimento “quasi” naturale che le governava […] la coscienza femminile si era formata su stereotipi: era l’oggetto, mai il soggetto. Se una donna diventava soggetto, c’era la condanna estrema da subire: la morte, com’era successo a Ipazia».
Teresa Campi, in “Renée Vivien. La Saffo della Bella Époque” pubblicato da Odoya, presenta e racconta una poeta che legge, studia e ammira da tempo: Pauline Mary Tarn (Londra 1877 – Parigi 1909). Una donna tormentata da un mal di vivere che si darà la morte poco più che trentenne.
Nata in un piccolo villaggio ai confini con la Scozia, di cui non le piaceva il paesaggio, il clima né la lingua, si trasferì a Parigi appena raggiunta la maggiore età, felice di lasciare Londra, “la città nera” di fumo e nebbia, per andare a vivere in un luogo, una realtà, luminosa. Scappava dalla notte dirigendosi, come falena attratta dalla luce, verso una città che amava.
L’eredità ricevuta le permise di condurre la vita che desiderava, quella che l’allontanava dai foschi pensieri, senza preoccupazioni economiche. Il rapporto con la madre, ritenuta una persona egoista e anaffettiva, non fu mai buono mentre fu legata, da sincero affetto, alla sorella minore.
Dopo aver compreso, all’età di quattordici anni, quale fosse l’inclinazione che voleva coltivare e perseguire – scrivere versi – la sua vita fu segnata da un’altra scoperta: l’amore per le donne. Una volta svelata a sé stessa scelse di non nasconderlo.
Campi ripercorre le relazioni allacciate con le diverse donne raccontandone i caratteri, le personalità e la profondità con cui la protagonista ne fu coinvolta, donne note come Natalie Barney e Hélène de Rothschild Zuylen. Il modello che Pauline Mary Tarn scelse e rincorse fu quello di Saffo e del mondo classico: «Nella sua solitaria rivolta Renée, con la “scoperta” di Saffo, si spingeva ancora oltre. Metteva in causa più per istinto che per ideologia l’identità del femminile. Questo avrebbe condotto le donne che “disubbidivano” a una nuova visione del loro desiderio di bellezza, gloria e amore. Lei forse non ne era tanto consapevole, ma sarebbe stata la prima poetessa occidentale moderna a scrivere apertamente dei suoi amori femminili, a esprimerne i desideri, i sogni, le angosce e i fantasmi in un campo che era stato monopolizzato dagli uomini. Si sottrasse alla censura implicita quando ruppe il patto del silenzio, che per secoli, aveva vietato le donne di affrontare queste tematiche».
L’impegno di Tarn fu volto a cercare e affinare un linguaggio che esprimesse quel che doveva rimanere celato, il suo intento fu creare parole per dar voce all’amore di una donna per un’altra, un’esperienza che riguardò non soltanto lei nella Parigi di quegli anni ma altre donne per i cui sentimenti non esisteva un vocabolario cui ricorrere.
Per sfuggire a un’esistenza che le provocava sofferenza viaggiò molto e ricercò la solitudine perché, per quanto si sforzasse, non riuscì a trovare il proprio posto nel mondo e quando il malessere divenne insopportabile anche quella luce parigina, che tanto amava, si trasformò in una ferita da curare con la penombra.
La prorompente vitalità del giorno era troppo per una mente, come la sua, alla ricerca di una definizione esistenziale e un equilibrio relazionale, più che sdrucciolevole, impossibile da gestire. Nella scrittura la sua ricerca stilistica fu, da prima, severa e orientata al raggiungimento della perfezione e – nell’ultimo periodo della vita– ossessiva.
Accarezzò l’idea della morte cullandola come liberazione da un vivere in cui le relazioni umane la sfiancavano, la critica nei confronti della sua poesia e del suo stile di vita la spingeva verso un isolamento che, quando risultò insufficiente a difendersi dalla insostenibilità quotidiana, si accompagnò con la scelta di spegnersi lentamente abbandonandosi all’anoressia.
«Aveva una personalità malata? Furono in molti a chiederselo, ma un fatto è certo: grazie al suo talento riuscì nello scopo di rimanere nella storia costringendo i posteri a interrogarsi non tanto sulla raffinatezza dei sui versi, quanto sui risvolti della sua personalità, e questo non giovò al riconoscimento della sua opera da un punto di vista esclusivamente critico».
Il suo era un sentire inquieto e sofferto che le dava incertezze, gelosie e voglia di fuggire da un consesso umano che avvertiva ostile e giudicante. Un carattere timido e introverso dibattuto in una estenuante tensione tra una dimensione personale, creata ad arte per avere silenzio e solitudine, che tenesse fuori le brutture del mondo e il bisogno – legittimo – di riconoscimento del talento.
Voleva essere sé stessa senza infingimenti e aspirava a una condivisione del proprio lavoro letterario. Nell’osservazione della realtà rinveniva una ingiustizia costante e reiterata nei confronti delle donne che, costrette a vivere, pensare e rappresentare il mondo con canoni creati dagli uomini non ne avevano a disposizione uno adatto per esprimere la loro soggettività. «Dai suoi esordi in letteratura, nel 1901, fino alla sua morte nel 1909, Renée Vivien insistette molto sulla capacità creativa delle donne. Esse avrebbero dovuto ricostruire la simbologia del reale, peculiare alla loro natura. Il motivo? Erano state troppo ingannate a celebrare l’uomo e a celebrare passivamente il suo linguaggio bruciando la soggettività dell’immaginario femminile».
Le prime quattro pubblicazioni di poesie le firmò al maschile, dalla quinta scelse lo pseudonimo di Renée Vivien. Durante un viaggio in Giappone conobbe la filosofia buddista e se ne appassionò, tornata a casa ricreò nel proprio giardino parigino la quiete di uno buddista nella speranza di trovarvi calma, equilibrio e pace. Ma così non fu.
Continuò a viaggiare anche quando ormai priva di forze alcool, digiuno e rifiuto di cure mediche la portarono a quella morte che tanto aveva corteggiato. Al suo capezzale rifiutò la madre ed ebbe la contessa Hélène de Rothschild Zuylen tornata a prendersi cura di lei nell’ultimo periodo. Il testo è corredato da una selezione fotografica che sostiene chi legge nella comprensione del periodo storico in cui la protagonista visse: Colette, Isadora Duncan e altri personaggi dell’epoca. L’ultima parte del testo, l’Appendice, è dedicata a una attenta disamina della metrica e della composizione dei versi.
©Riproduzione riservata

IL LIBRO
Teresa Campi, Renée Vivien. La Saffo della Bella Époque
Odoya edizioni
Pagine 288
euro 20

L’AUTRICE
Teresa Campi, nata a Terracina, è romana di adozione. Ha studiato all’Università La Sapienza di Roma: suoi maestri Elémire Zolla ed Elio Chinol. Ha conseguito un master in Educazione alla Pace e svolto corsi in nome del World Compassion for Children International sui diritti umani, fondato dal premio Nobel Betty Williams. Ha esordito come giornalista di Paese Sera e ha pubblicato Il canzoniere di Isabella Morra (Bibliofilo, 1980); Cenere e polvere (Savelli, 1981); Le ore casalinghe (Il Bagatto, 1982); Sul ritmo saffico (Bulzoni, 1983); Il sangue e l’oblio (Edizioni del Girasole, 1996); Le cucine desolate (Manni, 1999); Storia elementare (Manni, 2006); D’Amore e morte. Byron, Shelley e Keats a Roma (Albeggi, 2016). Ha tradotto opere di Renée Vivien, Pétrus Borel, Pierre Louÿs e il carteggio di P.B. Shelley: Morire in Italia (Archinto, 1986).

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