Paludi e acquitrini dove annegano le stelle, freddo e melma vorace inghiotte nel palustre anfratto l’universo di cose terrifiche e selvagge. Sono quelle che fanno rabbrividire il poeta: brivido di nostalgia delle selve di Rousseau il doganiere, simile l’incongruenza della vegetazione, autoritratto-paesaggio. Ali di farfalle, gibigiane, eco delirante della natura furba e ottusa, uccelli dentati e i fiumi d’argilla, le stagioni fangose e antri che ingoiano stelle.
Naturalmente, quella di Franco Santamaria, autore di “Radici perdute” (Kairòs edizioni, pagg. 94, euro 10),), non è eco-poesia. Le metafore rimandano per di più ai sotterranei delle foreste, personificazione di forze oscure, sismiche, vulcaniche o flegree. Infine si tratta addirittura dei sotterranei delle paludi che tentano di risucchiarci nel ventre dei culti infernali. Il poeta come divinit tra i campi flegrei canta versi taumaturgici e sciamanici dopo aver vestito un mantello di vegetazione e di terre sommerse, con cui copre la sembianza infernale originaria della divinit ctonia.
La distruzione e il caos inclinano l’anima a imitare la mano criminale della natura.
Il sole si è spento in questa giungla porosa, pronta ad assorbirci, a farci sparire in assenza del sole.
E neanche più luna.
Improvvisamente amore. Forse… Pirotecniche luci. Ma, no! Ma, no! di quest’alba una croce di terra morta. Ali spezzate. Vede la morte ovunque. Ma è vita. Anche la luce di un nuovo deserto.
Una poesia vegetale, essere ramo, ultimo ramo, che forse non è più. La sua, di Santamaria, è l’innocenza senza declino, quella cosmica e primordiale e, in quanto tale, pericolosa. Dell’albero celeste violenza e morte, pari all’occhio di Dio, unico, castigatore. Egli è metafora di questo Albero; nell’evolversi della noosfera è l’intelletto cosmico. Metafora di Santamaria diventa immagine. Lui ragiona per immagini, creando l’archeologia dei linguaggi delle stagioni future della poesia. O sono gli ultimi palpiti della natura stessa delle cose e siamo ormai nella fantascienza?
Egli è l’ideologo del viola. Il sangue della luna è livido, verde come sanguinacci di Antonio Porta. Erano in marmo. Come i letti di Franco ancora di pietra. Pietrificati anche forme di colore e musica. Tutto immerso nella luce nera di un dio che il poeta non riesce ad amare: tanto è il dolore e la mestizia per disillusa strage senza tregua. Maree di cuccioli / nudi nel nero cellofan della morte, / tronchi di vecchi alberi crocifissi a bastoni dai nodi artritici.
Preghiera laica, la sua, rivolta alla notte innaturale, alla natura cannibale delle cose. La sua valle, si sa, non è Eden. Quando parla di corpi scannati al grande macello ci fa ricordare le immagini glaciali dell’artista Fausta Squatriti, i suoi grandi trittici dei requiem per l’uomo e i suoi enti: dolore, assurdo, dolore. Non più piet .
La carne è sconfitta. E noi non vogliamo essere noi. Forse non vogliamo più essere. La pace non c’è. Le stelle omicide si domandano: ma chi ha ingannato le orde?
La voce della prosodia di Santamaria è antica, misterica, a tratti epica. Canto liturgico, preghiera in morte, pianto delle donne in nero, senza lacrime. Solo le grida. Silenziose lingue dell’intero Meridione del pianeta. L’amore è presente solamente in qualit di assenza. Il sociale diventa la mera voce della poesia.
una poesia barocca, la sua. Ecco! La piega di Leibniz e di Deleuz. barocca in tutto e per tutto, in quanto in essa tutto si piega, si dispiega e si ripiega. Barocco curva e ricurva le pieghe, le porta all’infinito, piega su piega, piega nella piega. I rami, gli alberi, le erbe. Le mani, coppe di agave morta.
Infine: Tremano i sogni senza difesa all’ultima scena.
Nella foto, la copertina