Fermarsi sulla soglia, guardare attorno e capire che si sta per entrare in un luogo singolare, per essere avvolti da un’atmosfera dorata, tra muri che paiono fatti senza materia, soltanto dai colori delle pitture e dei marmi variegati. Il luogo è la chiesa francescana di Donnaregina Nuova ( nuova si fa per dire, è del 1600), un capolavoro dell’architetto napoletano Giovan Giacomo Conforto, cioè del creatore del Barocco, napoletano e non solo.
La chiesa, insieme a Donnaregina Vecchia, che è del 1300, costituisce il Museo Diocesano. Invece il convento delle clarisse, alle quali le due chiese appartenevano, ristrutturato ottimamente dallo spagnolo Alvaro Siza, è diventato il Museo Madre e mette in mostra opere d’arte contemporanea e i migliori  ghiribizzi espressivi di questo nostro mondo impazzito.
Donnaregina Nuova  raccoglie opere barocche, le quali, pur nella loro intrigante diversità, hanno una comune identità, per cui il dolore, la gioia, i sentimenti mistici e terreni sono sempre espressione di un umanissimo amore. Gli autori di queste opere sono soprattutto grandi artisti napoletani, seppure  noti a molti di noi soltanto come nomi di strade vomeresi: Solimene, De Mura, Luca Giordano, Aniello Falcone… E vi sono numerose opere di un artista molto particolare  e misterioso: Ignoto Napoletano.
Visitare un posto come questo è un’esperienza stimolante, indimenticabile. Eppure è ignorato dai più. E, per dargli pregio, occorre, come per le scarpe e i capi di vestiario, che vi si coinvolga una firma universalmente famosa. Anni fa, al Museo Diocesano ci fu gran folla per la mostra di due crocifissi di Michelangelo.
In questi giorni, e fino al 31 marzo,  vi è la mostra “Leonardo a Donnaregina”. Perché Leonardo? Perché – risponde l’ottimo direttore del Diocesano, l’egregio don Alfonso Russo- oggi più che mai c’è bisogno di ribadire che cosa è l’Uomo, la sua identità, la sua essenza, ricordando che Cristo è Dio e Uomo insieme. E certo Leonardo dette una testimonianza lodevole dell’intelligenza umana. Firenze si gloria di una triade di artisti famosi, noti anche alla massa degli italiani: Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Sebbene Leonardo abbia lavorato a Milano più che a Firenze e Raffaello, nato  peraltro a Urbino,  abbia lavorato, come Michelangelo, soprattutto a Roma. Ma il fatto è che a Firenze i tre si incontrarono, si confrontarono e il loro incontro rivoluzionò la storia dell’arte, italiana e non solo.  Ispiratore di questa rivoluzione fu soprattutto Leonardo, che, tra l’altro, suggerì ai colleghi un nuovo e più libero modo di comporre un dipinto, cioè di affrontare la redazione visiva del mondo.

Leonardo da Vinci | ilmondodisuk.com
Qui sopra, l’opera discussa da esperti e storici, Salvator Mundi. In alto, una panoramica del museo Diocesano dov’è esposta la mostra: lo scatto è di Alma Repetto

Leonardo, come si sa, non fu soltanto un eccellente pittore. Vasari (ne “Le vite di più eccellenti pittori, scultori e architetti”) ce lo dice bellissimo di aspetto, brillante nella conversazione, bravissimo musico e che, curioso di tutto, indagava il cielo e le stelle, le erbe, gli animali e gli uccelli. Eppure lo rimprovera per non aver seguito studi letterari. E di cominciare molte cose che poi non portava a termine.
Ma lui si dice orgogliosamente “homo sanza lettere” e afferma di preferire apprendere dalla propria “esperienza più che dall’altrui parola”.  E trasporta la sua esperienza di naturalista nella sua pittura. Come, ad esempio, “ l’azzurramento dei lontani”.
Così noi napoletani da lontano vediamo azzurro il Vesuvio, che azzurro non è. Ciò dipende dalla grossezza dell’aria- ci avrebbe spiegato Leonardo, che dipinge i suoi paesaggi più o meno azzurrati secondo la lontananza. Il padre Piero,  che non sposò mai la madre di Leonardo, ma ebbe sempre cura di lui, lo mise a bottega dal Verrocchio e subito il ragazzo diede prova della sua arte.
Ma l’ambiente culturale fiorentino, dominato dai Medici, non lo soddisfaceva: troppo letterario e pago del suo Umanesimo, un ristretto mondo dominato dall’uomo, come afferma la sua esaltazione della prospettiva.
Così, nel 1482, Leonardo se ne parte da Firenze e si ferma a Milano da Ludovico il Moro. Ma,  alla discesa di Cardo VIII in Italia  (il Re francese avrebbe voluto conquistare il Regno di Napoli, ma poi non vi riuscì), Ludovico perde il potere e Leonardo lascia Milano per altre esperienze. Va a Mantova, a Urbino, a Venezia, conosce Luca Pacioli, Machiavelli, Cesare Borgia, di cui si  mette a servizio, e tanti altri personaggi eminenti.
Si ferma a Firenze, e da qui va a Roma, accompagnato da Giuliano de Medici,  dal papa mediceo Leone X. Ma poi se ne allontana e lo ritroviamo a Milano, dove riceve l’invito del re Francesco I di raggiungerlo in Francia. Accetta. E passa gli ultimi tre anni della sua vita ad Amboise. Morirà, il  2 maggio  del 1519, tra le braccia del re Francesco in lacrime. Appunto nel suo soggiorno a Firenze nei primi anni del 1500, Leonardo incontra Michelangelo e poi Raffaello.
A Firenze, era morto, nel 1492, l’anno della scoperta dell’America, Lorenzo il Magnifico e gli orgogliosi fiorentini avevano chinato il capo penitente alle prediche del Savonarola.  Ora c’è la Repubblica.  Leonardo ha da poco completato il cartone di Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e l’Agnellino. Il cartone è andato perduto ma la sua redazione pittorica è conservata al Louvre. La  composizione di questa opera è tipica di Leonardo.
Nella sua costruzione piramidale, il cui vertice è la testa della Sant’Anna, si svolge un movimento tortile che discende da sinistra verso destra. Questa composizione è subito adottata da Michelangelo nella sua “Sacra Famiglia”, il famoso “Tondo Doni”. Mentre è assunta più volte da Raffaello, che peraltro imita spesso le Madonne di Leonardo e finanche tenta di imitare, nel ritratto di Maddalena Doni, la Gioconda leonardesca: una imitazione, mi sia concesso di essere sacrilega nei riguardi dell’intoccabile Raffaello, piuttosto goffa.
Appunto nella mostra “Leonardo a Donnaregina” c’è una rielaborazione di questo dipinto leonardesco del gruppo della Sant’Anna: una imitazione decisamente goffa che, nella resa del viso della Santa, diventa addirittura grottesca.
Ma in mostra, emozionanti, vi sono i codici leonardeschi. Il codice Corazza, che è in prestito dalla Biblioteca Nazionale di Napoli, il Codice Fridericiano, normalmente conservato nella Biblioteca dell’Area Umanistica della Università Federico II e “Napoli antica e moderna”, del 1815, dell’Abate Romanelli.
Leonardo ha descritto le sue osservazioni, una miriade di osservazioni, sui più vari fenomeni, le energie della natura, la forza delle acque, la fisionomia degli affetti, ricoprendo migliaia di pagine con la sua caratteristica scrittura da sinistra a destra. E ha accompagnato lo scritto da tantissimi disegni, di macchinari, di architetture, di lenti ecc. Una attività inarrestabile, una vitalità straordinaria.
In mostra c’è anche il dipinto di un gentile Gesù Bambino, opera del Salai. Salai è il soprannome di Gian Giacomo Caprotti, di cui Leonardo scrisse “venne a stare con meco dall’età di dieci anni”. E vi rimase fino alla morte del Maestro. Leonardo, che all’epoca di anni ne aveva trentasei, ne fece il suo allievo e forse anche qualcosa di diverso. Lo descrive come un birbantello, per cui lo soprannomina Saladino, cioè Infedele, nome che, contratto, diventa Salai. Leonardo guida Salai nel suo lavoro, nel quale spesso interviene con qualche ritocco.
L’opera in mostra al Diocesano ha una certa grazia ma è soprattutto la sua storia che intriga. In mostra c’è anche un “Salvator Mundi”, curiosa la diversità tra i due occhi, che sembra essere un rifacimento del Cristo Benedicente, che pure è in mostra.
Alcuni studiosi attribuiscono questo Cristo Benedicente a Leonardo.  L’autenticità di questa attribuzione è avvalorata dalla magnifica  fattura delle mani, delle quali sono anche stati ritrovati i disegni preparatori fatti dal Maestro. Certo questo Cristo è una figura imponente e ha uno sguardo convincente, quasi magnetico.  La critica parla anche dello sfumato riscontrabile nel viso e lo definisce leonardesco. A me però non pare lo sia. Lo sfumato del Maestro è leggero, impalpabile. Usato per i lineamenti del viso di un personaggio rende la sua espressione cangiante, quasi che questi dialoghi con l’osservatore. Ma c’è di più.
Leonardo usa sempre lo sfumato nel contorno delle figure. Lo usa precocemente, già nel dipingere il profilo dell’angelo  nella sua giovanile “Annunciazione”. Non mi sembra che in quest’opera ci sia. Per spiegarmi meglio, ricordo che l’arte toscana, come si sa, usa una linea marcata per contornare le figure, in modo che esse siano ben distinte dallo sfondo e sembrino venirci incontro.
Leonardo usa, naturalmente,  da buon toscano, la linea per definire le figure. Ma la sfuma, in modo che queste, mentre vengono verso di noi, invece arretrano verso lo sfondo. E’ una visione direi filosofica del mondo, quella di Leonardo, che, con la ragione, evidenzia le singolarità individuali ma, con l’intuizione, sente che ognuno  e ogni cosa è parte dell’infinito mondo.  Forse qualche intervento di restauro ha potuto produrre qualche guasto a quest’opera, che è certamente interessante, appesantendone lo sfumato. Oppure Leonardo ha lasciato, come spesso faceva, incompiuto il dipinto, completato poi da qualche allievo. Ancora una osservazione.
Il Vasari, descrivendo l’Ultima Cena leonardesca, afferma che Leonardo non voleva dipingere il viso di Gesù, considerando che non si poteva raggiungere la bellezza che il personaggio esigeva.  Un’ultima chiosa. La bolla di cristallo che il Redentore ha in una mano mi ricorda vagamente la bolla dipinta nel quadro con il ritratto di Luca Pacioli, che di Leonardo fu amico. Il quadro è firmato Iaco Bar e si trova nella reggia-museo di Capodimonte.
Per saperne di più
http://www.museodiocesanonapoli.com/

RISPONDI

This site is protected by reCAPTCHA and the Google Privacy Policy and Terms of Service apply.