Irina, da ex professoressa di lettere a badante, dall’Ucraina all’Italia, prima e dopo la caduta del muro di Berlino. Irina e il suo percorso d’addio alla sua terra, da Madre della Patria e donna senza bellezza né femminilità, da persona senza libertà e madre senza certezza di futuro.
In questo clima si snodano le pagine, a tratti crude e drammatiche, de “L’ultimo treno da Kiev” di Stefania Nardini, Les Flâneurs edizioni, pagg. 158, Euro 15,00.
Il viaggio di Irina parte da Kiev, una città ferita, con una povertà dilagante e l’ostentazione di ex poveri che tentano di riscattare la miserrima condizione spendendo denaro, con i vecchi lasciati soli a frugare nell’immondizia in cerca di arance di cui nutrirsi. L’arancia era diventata il frutto più ricercato dopo Chernobyl, perché alzava le compromesse difese immunitarie a seguito dello storico scoppio della centrale nucleare, poi diventata (drammaticamente) la più famosa del mondo.
Irina lascia un paese, l’Ucraina, senza più un’identità nazionale, senza neppure più una lingua pura, mentre già comparivano i primi McDonald’s e quando già circa mezzo milione di sue connazionali erano fuggite per scampare ad una miseria certa.
Lascia una città, Truskavets, nota per la Naftusya, una miracolosa acqua termale con proprietà terapeutiche che, in altra epoca, dava lavoro a medici, fisioterapisti, impiegati. Un luogo che aveva saputo resistere al socialismo reale con una sua identità, un microcosmo contadino animato da gente che creava l’orticello tra i casermoni voluti dal regime, accudiva galline, usciva per funghi, mungeva le vacche.
L’autrice, Stefania Nardini, in questa prima parte del libro fa emergere il contrasto tra gli abitanti di quel luogo e di quello che fu il regime nazionalista, con una scrittura in punta di piedi racconta le difficoltà del regime. Raccoglie con parole e quadri di immagini il “dietro” del personaggio di Irina, la durezza della vita, gli stenti, la fatica dell’ignoto esistenziale, ma lo fa con rispetto, quasi con umiltà, fino a tracciare una via d’uscita a tutto ciò; l’agognato Occidente, quel mondo possibile contrastato in patria, la libertà negata sotto i piedi.
Irina, lasciandosi alle spalle i tanti luoghi comuni che accompagnavano le ucraine all’estero, quali puttane, bevitrici, bugiarde, pronte a tutto, parte, abbandona gli stenti, strappa la famiglia e lascia un paese in balìa del nulla. Ma il distacco più doloroso sarà tra lei e sua figlia, che rimarrà a studiare in patria.
La sfida di Irina, a questo punto, non sarà più quella di cambiare abito, ma pelle. Diventare consapevole di ciò che può ottenere da questa nuova vita: dignità, consapevolezza, sentirsi donna. Alcuni decenni passati tra Nord e Sud del nostro paese rappresenteranno, per Irina, sacrifici, dolore, fatica, e alla fine la conquista della libertà sarà su una sottile linea di confine tra promessa e inganno.
Soltanto chi legge potrà decidere se ne è valsa la pena, se fuggire da miseria e fame per incontrare la terra promessa abbia rappresentato per l’ex professoressa una vittoria o una ulteriore delusione. Se l’aver spezzato gli affetti più cari sia stato ripagato con quella nuova vita agognata.
La scrittrice Stefania Nardini, in questo libro, ha saputo tener dentro un unico filo logico tra il rigore morale di una donna nata per il regime (Ucraina) e la “presunta” libertà di un paese occidentale (Italia). Lascia cadere alcune leggende metropolitane sulle donne dell’est, abbatte l’idea omologante e il giudizio massificatore su di esse.
Alla fine l’autrice va ancora oltre e sfiora l’idea di porsi se un paese democratico e libertario (sulla carta) come l’Italia, sappia essere giusto o meno con gli stranieri. Lo fa sempre in punta di piedi, contemplando, nella scrittura, limiti e problemi di una donna che lascia un “non luogo” per qualcosa che possa divenire il “luogo” della vita.
Leggendo si potrà continuare allungando ed allargando la storia che, in questo caso, ha riguardato Irina, ma che può portare il nome di tante altre donne, vissuti, prevaricazioni, sogni da inseguire e da realizzare, senza rinunciare ad essere radice, femmina, madre, lavoro, futuro.
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L’AUTRICE
Stefania Nardini è romana, giornalista e scrittrice, dopo aver vissuto a Napoli e lavorato per il quotidiano Il Mattino, adesso si divide tra Marsiglia e l’Umbria. Per Pironti editore ha pubblicato “Matrioska”, una storia sulla condizione delle donne in Ucraina e “Gli scheletri di via Duomo”, noir ambientato nella Napoli anni ’70. Autrice di “Jean Claude Izzo, storia di un marsigliese” (ed. Perdisa Pop nel 2011 e riproposto da E/O nel 2015), biografia romanzata del grande autore francese, ha continuato a raccontare Marsiglia in “Alcazar. Ultimo spettacolo” noir- storico pubblicato da E/O nella collana Sabot Age.