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fotografato da Orna Wachman da Pixabay
Il Regno “ritrovato” e “perduto”. Napoli, il Mezzogiorno, i Borbone (1734-1860) inizia con una attenta scomposizione di analisi sulla condizione del Mezzogiorno a partire dagli inizi del Settecento. Una prima fotografia dello stato economico e sociale; rapporti prevalentemente feudali, poca impresa e molta rendita. Il baronato che controllava la leva amministrativa e fiscale, oltre che la gestione dei propri possedimenti, allontanando la capacità di una “elevazione” della plebe e del popolo povero.
E quando la feudalità cominciava ad arrancare, i baroni ne cavalcavano l’onda e ne diventavano imprenditori. Determinando così la crescita, in particolare in alcuni settori manifatturieri (lana), di investimenti da parte degli appartenenti alle libere professioni come notai, medici, avvocati, e restringendo quella parte di nobiltà riluttante a mettersi in gioco.
Insomma, quando Carlo di Borbone si insedia si troverà a dover fare i conti con territori frastagliati, poco inclini a guardare il potere centrale e una feudalità che non ha eguali al mondo.
Il giovane don Carlos dovrà tutto alla mamma Elisabetta, energica e ambiziosa, e al suo obiettivo di cacciare gli asburgici dal Mezzogiorno e coronare i Borbone al Sud (regni di Napoli e Sicilia). Così sfrutta l’instabilità dei troni d’Europa e individua l’Italia come lo Stato più ambito. Nel 1734 Carlo di Borbone “entra” in Napoli e il successivo agosto sbarca in Sicilia.
Il riformismo di Carlo di Borbone raccoglie giudizi storici diversi, non vi è una analisi univoca, ma colorata da più sfumature. Tuttavia alcune riforme gettarono le basi per sistematizzare rapporti pubblici mai affrontati prima, specialmente nell’apparato amministrativo e nel campo fiscale.
Finalmente si restrinse il potere ecclesiastico e, attraverso una sorta di censimento di redditi e possedimenti immobiliari, si addivenne ad una tassazione con criteri più equi. Pur tuttavia non mancarono le ritrosie delle forze conservatrici e aduse a ricevere privilegi: commercianti, baroni e diversi altri ceti.
Sul punto i due autori, Antimo Manzo e Italo Talia, sembrano raccogliere la tesi secondo la quale la monarchia borbonica, nonostante lo sforzo riformista, non vada oltre la riproduzione dell’equilibrio tra le classi sociali esistenti all’epoca.
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Questi sforzi creano nuovi rapporti di forza sociali, a una città (Napoli) intrisa di fermenti culturali che strizzano l’occhio all’Europa, si contrappone una campagna arretrata, povera, soffocata dai privilegi. Si distribuisce un ceto baronale e mercantile nella Provincia (zone interne) e uno di tipo più commerciale in città.
Nella stessa città di Napoli si vanno stratificando due classi: una illuminata, che muove intelligenze e fermenti letterari, e l’altra maledettamente povera e malfamata.
L’allontanamento da Napoli di Carlo e l’avvicendamento con Ferdinando, dopo una reggenza del Regno in attesa della maggiore età di questi (8 anni), provoca una battuta d’arresto dello spirito riformatore avanzato in precedenza. I due problemi atavici riprendono quota: il baronaggio e la chiesa, forti e condizionanti.
Verso la fine del secolo diciottesimo si rompe il rapporto tra corona e popolo, i moti rivoluzionari francesi colpiscono anche gli intellettuali napoletani (Vincenzo Galiani, Emmanuele De Deo, Andrea Vitaliani) che, nel raccogliere lo spirito egualitario della Francia, vengono giustiziati.La caccia a tutti gli altri cospiratori farà il resto.
Antimo Manzo e Italo Talia avanzano l’idea che il Mezzogiorno borbonico di Carlo e Ferdinando, pur sforzandosi di creare condizioni socio-economiche migliori, viene affondato nelle sue stesse contraddizioni, non sconfiggendo mai del tutto quella feudalità che imprimeva la conservazione di privilegi e la stratificazione tra poche classi sociali ricche e la stragrande maggioranza del popolo in miseria.
Alla vigilia del nuovo secolo con i Borbone in fuga e una reggenza effimera (Francesco Pignatelli), lo spirito giacobino napoletano esce fuori e si sposta in prima linea per difendere le sorti della capitale partenopea, ormai allo sbando.
Ma non basta la sola improvvisazione, senza leader carismatici, a difenderla dall’esercito francese. La resistenza dura davvero poco e porta a un bagno di sangue dei lazzari.
Dopo l’analisi del decennio francese i due autori si avviano alle conclusioni di questo eccellente saggio storico, chiudendo una trilogia che ha percorso la storia del Regno di Sicilia, poi di Napoli e di Sicilia e per finire delle “due Sicilie”.
Un affresco contemporaneo, sugli oltre 700 anni di potere delle monarchie succedutesi nel Mezzogiorno, scorrevole, mai pesante, con una rivisitazione attuale e illuminante.
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Un approfondimento realistico, che risale il cammino della storia, argomenta, analizza, con un punto di vista innanzitutto autonomo dei due autori e, contestualmente a forte scrittura critica, capace di contenere i giudizi contrastanti sulle complesse vicende del Regno.
Antimo Manzo e Italo Talia raccontano e sviscerano, con chiarezza, i problemi che hanno storicamente limitato le monarchie straniere nel Sud, ovvero il non aver mai saputo affrontare fino in fondo lo strapotere della chiesa e i privilegi alla base dei rapporti feudali. Due limiti che hanno diviso l’alto dal basso, la plebe dall’aristocrazia, i ricchi dai poveri, i malfamati dai privilegiati, caratterizzando il distacco tra centro e periferia, capitale e hinterland, campagna e città.
Aspettiamo ora, dai due autori, l’analisi sul Mezzogiorno del 1900, attraversato da due guerre mondiali, fino ai primi 20 anni del nuovo secolo.
©Riproduzione riservata
IL LIBRO
Antimo Manzo e Italo Talia,
Il Regno “ritrovato” e “perduto”. Napoli, il Mezzogiorno, i Borbone (1734-1860)
prefazione di Claudio De Vincenti
Guida Editori,
pagg. 293,
euro18,00.