Il Regno “ritrovato” e “perduto”. Napoli, il Mezzogiorno, i Borbone (1734-1860) inizia con una attenta scomposizione di analisi sulla condizione del Mezzogiorno a partire dagli inizi del Settecento. Una prima fotografia dello stato economico e sociale; rapporti prevalentemente feudali, poca impresa e molta rendita. Il baronato che controllava la leva amministrativa e fiscale, oltre che la gestione dei propri possedimenti, allontanando la capacità di una “elevazione” della plebe e del popolo povero.
E quando la feudalità cominciava ad arrancare, i baroni ne cavalcavano l’onda e ne diventavano imprenditori. Determinando così la crescita, in particolare in alcuni settori manifatturieri (lana), di investimenti da parte degli appartenenti alle libere professioni come notai, medici, avvocati, e restringendo quella parte di nobiltà riluttante a mettersi in gioco.
Insomma, quando Carlo di Borbone si insedia si troverà a dover fare i conti con territori frastagliati, poco inclini a guardare il potere centrale e una feudalità che non ha eguali al mondo.
Il giovane don Carlos dovrà tutto alla mamma Elisabetta, energica e ambiziosa, e al suo obiettivo di cacciare gli asburgici dal Mezzogiorno e coronare i Borbone al Sud (regni di Napoli e Sicilia). Così sfrutta l’instabilità dei troni d’Europa e individua l’Italia come lo Stato più ambito. Nel 1734 Carlo di Borbone “entra” in Napoli e il successivo agosto sbarca in Sicilia.
Il riformismo di Carlo di Borbone raccoglie giudizi storici diversi, non vi è una analisi univoca, ma colorata da più sfumature. Tuttavia alcune riforme gettarono le basi per sistematizzare rapporti pubblici mai affrontati prima, specialmente nell’apparato amministrativo e nel campo fiscale.
Finalmente si restrinse il potere ecclesiastico e, attraverso una sorta di censimento di redditi e possedimenti immobiliari, si addivenne ad una tassazione con criteri più equi. Pur tuttavia non mancarono le ritrosie delle forze conservatrici e aduse a ricevere privilegi: commercianti, baroni e diversi altri ceti.
Sul punto i due autori, Antimo Manzo e Italo Talia, sembrano raccogliere la tesi secondo la quale la monarchia borbonica, nonostante lo sforzo riformista, non vada oltre la riproduzione dell’equilibrio tra le classi sociali esistenti all’epoca.
Questi sforzi creano nuovi rapporti di forza sociali, a una città (Napoli) intrisa di fermenti culturali che strizzano l’occhio all’Europa, si contrappone una campagna arretrata, povera, soffocata dai privilegi. Si distribuisce un ceto baronale e mercantile nella Provincia (zone interne) e uno di tipo più commerciale in città.
Nella stessa città di Napoli si vanno stratificando due classi: una illuminata, che muove intelligenze e fermenti letterari, e l’altra maledettamente povera e malfamata.
L’allontanamento da Napoli di Carlo e l’avvicendamento con Ferdinando, dopo una reggenza del Regno in attesa della maggiore età di questi (8 anni), provoca una battuta d’arresto dello spirito riformatore avanzato in precedenza. I due problemi atavici riprendono quota: il baronaggio e la chiesa, forti e condizionanti.
Verso la fine del secolo diciottesimo si rompe il rapporto tra corona e popolo, i moti rivoluzionari francesi colpiscono anche gli intellettuali napoletani (Vincenzo Galiani, Emmanuele De Deo, Andrea Vitaliani) che, nel raccogliere lo spirito egualitario della Francia, vengono giustiziati.La caccia a tutti gli altri cospiratori farà il resto.
Antimo Manzo e Italo Talia avanzano l’idea che il Mezzogiorno borbonico di Carlo e Ferdinando, pur sforzandosi di creare condizioni socio-economiche migliori, viene affondato nelle sue stesse contraddizioni, non sconfiggendo mai del tutto quella feudalità che imprimeva la conservazione di privilegi e la stratificazione tra poche classi sociali ricche e la stragrande maggioranza del popolo in miseria.
Alla vigilia del nuovo secolo con i Borbone in fuga e una reggenza effimera (Francesco Pignatelli), lo spirito giacobino napoletano esce fuori e si sposta in prima linea per difendere le sorti della capitale partenopea, ormai allo sbando.
Ma non basta la sola improvvisazione, senza leader carismatici, a difenderla dall’esercito francese. La resistenza dura davvero poco e porta a un bagno di sangue dei lazzari.
Dopo l’analisi del decennio francese i due autori si avviano alle conclusioni di questo eccellente saggio storico, chiudendo una trilogia che ha percorso la storia del Regno di Sicilia, poi di Napoli e di Sicilia e per finire delle “due Sicilie”.
Un affresco contemporaneo, sugli oltre 700 anni di potere delle monarchie succedutesi nel Mezzogiorno, scorrevole, mai pesante, con una rivisitazione attuale e illuminante.
Un approfondimento realistico, che risale il cammino della storia, argomenta, analizza, con un punto di vista innanzitutto autonomo dei due autori e, contestualmente a forte scrittura critica, capace di contenere i giudizi contrastanti sulle complesse vicende del Regno.
Antimo Manzo e Italo Talia raccontano e sviscerano, con chiarezza, i problemi che hanno storicamente limitato le monarchie straniere nel Sud, ovvero il non aver mai saputo affrontare fino in fondo lo strapotere della chiesa e i privilegi alla base dei rapporti feudali. Due limiti che hanno diviso l’alto dal basso, la plebe dall’aristocrazia, i ricchi dai poveri, i malfamati dai privilegiati, caratterizzando il distacco tra centro e periferia, capitale e hinterland, campagna e città.
Aspettiamo ora, dai due autori, l’analisi sul Mezzogiorno del 1900, attraversato da due guerre mondiali, fino ai primi 20 anni del nuovo secolo.
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IL LIBRO
Antimo Manzo e Italo Talia,
Il Regno “ritrovato” e “perduto”. Napoli, il Mezzogiorno, i Borbone (1734-1860)
prefazione di Claudio De Vincenti
Guida Editori,
pagg. 293,
euro18,00.