Sarà presentato mercoledì 18 aprile, alle 18, nella sede della St.Peter’s School a Napoli (in Via Vittoria Colonna, 14) il volume curato da Antonio Filippetti “Tina Vaira, parole e segni dell’anima” (ed. Istituto culturale del Mezzogiorno). La presentazione è affiancata a una mostra dell’artista che sarà visitabile fino al 30 maggio. Pubblichiamo qui di seguito stralci del libro, per gentile concessione dell’editore.
Non è sempre agevole individuare per quali strade si manifesta e qualifica la creatività individuale, tante sono le componenti e le variabili che presiedono all’atto creativo. L’indagine sul come o sul perché nasca ogni volta la scintilla decisiva è un’operazione complessa e persino pericolosa giacché può condurre a esiti non sempre verificabili nel tempo. Di conseguenza anche l’analisi critica deve farsi attenta e minuziosa. Sul lungo raggio è possibile tuttavia individuare alcuni punti fermi che permettono un’esegesi puntuale e soprattutto attendibile.
Un’autrice come Tina Varia che da circa mezzo secolo insegue per cosi dire la sua cifra stilistica nei settori dell’arte e della scrittura creativa presenta al proprio attivo più di un elemento chiarificatore del suo mondo intenzionale, vale a dire delle ragioni per cui opera nell’ampio spazio della creatività.
Nell’intervista che si può leggere nelle pagine che seguono, emergono alcuni spunti caratterizzanti del clima emozionale che anima e sorregge la sua vena ispirativa. Innanzi tutto gli stimoli provenienti dal rapporto intellettuale oltre che umano col suo compagno di vita e di interessi culturali, Carlo Felice Colucci: «Il contatto con mio marito, che era un noto poeta, oltre che un importante medico – ci dice Tina – mi ha fatto amare la poesia perché lui molto spesso recitava a voce alta per farmi sentire dei versi di molti poeti importanti, da Montale a Pavese e tantissimi altri grandi. Quindi la poesia mi è entrata dentro e ne ho fatto tesoro, senza saperlo. Secondo me esiste un rapporto tra la scrittura poetica e la rappresentazione artistica e molti artisti sono diventati anche poeti».
E poi alla domanda sulla interscambiabilità dei linguaggi creativi, risponde senza esitazioni: «Ne sono convinta nel modo più assoluto. L’artista ama tutte le forme d’arte che va dall’amore per la musica, per la poesia, la letteratura. Una forma d’arte non esclude un’altra. Molti artisti sono anche poeti e viceversa. La pittura è poesia. La poesia è pittura”. S’invera perfettamente a questo punto la chiosa di Simonide di Ceo (ce lo ha riferito Plutarco) secondo cui “la pittura è una poesia muta e la poesia è una pittura parlante».
Il legame tra arte e poesia in Tina Vaira è in realtà abbastanza intrigante, al di là persino di testimonianze o confessioni autorali. Si direbbe anzi che la scrittura nel suo insieme la fagocita e l’attrae in maniera incessante sin dagli esordi pittorici. Ed è come se l’artista tendesse inconsciamente a collegare il suo rapporto con l’arte figurativa all’espressione epigrafica, quasi come se aspirasse a ritrovare la propria pienezza espressiva nel collegare appunto il segno con la pagina scritta. Le spie in questo senso non mancano e basterebbe fare ricorso all’originale raccolta delle “poesie a colori” laddove la scrittura si risolve e qualifica nell’espressione e artistica e quest’ultima, a sua volta, si specchia o si compie ripetutamente nella realizzazione poetica.
Ma la scrittura in Tina Vaira assolve anche un altro compito, decisivo per comprendere appieno il suo mondo emozionale. La scrittura serve all’autrice come vestibolo del proprio sentimento, quasi un’anteprima probatoria di ciò che potrà accadere e non soltanto in termini pittorici. Ecco allora l’importanza fondamentale delle pagine di diario laddove ritroviamo l’universo psichico dell’artista alle prese con la propria formazione e determinazione.
Il diario sembra anzi una forma di rifugio mnestico , un serbatoio nel quale custodire le scorte salvifiche alle quali attingere nei momenti topici per meglio esprimersi e qualificarsi, per dare una ragione di vita e di stile alle proprie esperienze. E si capisce perché il diario diventi poi una sorta di amico fidato, assai utile e particolarmente amato: «Caro diario, come ti voglio bene!»., è più di una dedica di rito, è semmai la certificazione di un bisogno esistenziale che fornisce una certezza di vita e d’esperienza: «ho voglia di vivere, vivere, vivere! Sia benvenuta anche l’ansia – stasera la sento amica – è un segnale ma un segnale buono». E’ soprattutto un grimaldello utile per lo scandaglio critico e per comprendere meglio la predisposizione bio-esistenziale dell’artista…
Testo letterario e opera pittorica sono in simbiosi ma più ancora la scrittura serve a dipanare fino in fondo l’animus che sorregge la produzione artistica. Non a caso poi sono molti gli spunti che animano un colloquio col suo compagno di vita e d’avventura culturale, Carlo Felice Colucci, che consentono uno scandaglio critico utile ad interpretare i lavori dell’artista, quasi una decifrazione puntuale del suo operare e indirettamente dei suoi rapporti col mondo.
Tra i due s’instaura, infatti, un discorso continuo, ciascuno diviene di volta in volta critico e mentore dell’altro, ne deriva un coacervo d’impressioni e sensazioni che presiedono poi all’atto creativo di entrambi. Questa corrispondenza sentimentale tra i due autori e compagni di vita è colta felicemente anche da Carlo Di Lieto quando scrive che “dei pari sensibilità artistica accomuna i due artisti, anche se in ambiti apparentemente diversi e con registri diversificati ma con una matrice unica di affinità elettive e di vero contagio tra spiriti magni”.
Il bisogno di scrivere in Tina Varia è pari al sentimento che la spinge a dipingere. Ecco perché la pagina scritta diventa non un semplice corollario ma un deposito a cui attingere anche per una verifica critica del suo lavoro. E la scrittura in Tina si specifica in varie forme.
La poesia in primis ma anche i pensieri affidati di volta in volta al suo fedele diario. E non solo: c’è anche un aspetto della sua scrittura che in chiave esegetica può risultare particolarmente indicativo; è quando l’autrice registra i propri sogni, avverte l’urgenza cioè di fissarli sulla carta per non disperderne la memoria, nel tentativo probabilmente di capire meglio essa stessa, “dopo”, ciò che è accaduto, percepire compiutamente cioè il senso di un avvenimento da cui ricavare anche una traccia o uno stimolo o soltanto la ragione del suo operare…
Ma poi la suggestione visionaria è rintracciabile in numerose opere pittoriche, in special modo in quelle in cui si impone più decisamente la componente astratta e surreale. E anzi è come se l’elemento fantasticante fosse la mediazione e il tramite di collegamento tra l’ispirazione lirica e la resa pittorica. Così nel gruppo di opere del “rosso e nero”, nel “viaggio”, nelle altre composizioni come “c’era una volta”, “luci e ombre” o nell’intera sequenza delle “poesie a colori”. Per poi sublimare il tutto in un incrocio perfino ludico in un’opera come “ giocando volando” che può rappresentare a buon titolo la cifra interpretativa di tutto un ciclo di realizzazioni in cui è difficile separare arte e poesia: o forse sarebbe più giusto dire laddove si invera il momento di una fusione pura e struggente in cui parole e segni si amalgamano insieme per raccontarci congiuntamente l’essenza di un’anima.