Il Madre ritorna a essere punto di congiunzione dell’arte internazionale, soprattutto della cultura afrodiscendente, con il revival dell’installazione artistica di Temitayo Ogunbiyi, e l’acquisizione di due opere dell’artista ghanese Ibrahim Mahama.
La riflessione su due artisti rientra in quel duplice scenario, ormai più che un tentativo, di portare il museo al centro della cittadinanza attiva in un’ottica internazionale, perseguendo con Kathryn Weir quella linea scelta già da altre direzioni artistiche del panorama museale cittadino.
Questo significa la ripresa del discorso ambientalista, filone artistico scelto dal museo per il 2020 e per il 2021, da considerarsi qui eccezionale appendice del primo.
Il tutto in un tempo in cui il concetto di distanza è stato stravolto, rendendo evidente come fosse più semplice collegare a Napoli la Nigeria o il Ghana che non le irraggiungibili zone rosse distanti pochi passi.
Dialogo tra luoghi lontani accomunati da stessi discorsi: il problema ambientale è globale, come anche il desiderio di fare arte recuperando oggetti comuni e del passato, dando loro nuova vita attraverso la tecnologia, per un nuovo pensiero critico. Questo avviene per entrambi gli artisti.
Il lavoro di Temitayo Ogunbiyi è una miscela ben ragionata di espressioni culturali. In particolare, l’artista si è lasciata ispirare da alcune caratteristiche capigliature nigeriane per arrivare alla creazione di giardini artificiali dedicati ai bambini. Ogni sua installazione è pensata per il luogo che la ospita e utilizza materiali di recupero, oggetti di uso comune per creare ambienti polifunzionali.
Dopo la biennale di arte contemporanea di Lagos del 2019, con un Playground costruito utilizzando bombole per il gas, metallo, cemento, Ogunbiyi arriva al Madre con You will play the everyday, running, dedica alla cultura napoletana con il più rustico dei simboli: una forma per casatielli posta come base di alcune delle strutture. Ma non solo.
L’opera richiama il tracciato Google che lega Lagos, città in cui l’artista risiede, e Napoli, a suggellare la trasversalità e l’unione di questo dialogo artistico.
Il risultato è uno spazio dedicato alle persone, in cui inventare e interagire, lasciando ai più giovani la possibilità di completare l’esperienza artistica con il gioco e la creazione di una nuova cultura del riutilizzo. Una nuova cosmologia delle prospettive del presente/futuro.
Ed è già prevista un’estensione del progetto, con l’allargamento all’elemento musicale, attraverso la produzione di strutture scultoree che saranno suonate dai visitatori.
Quella del riutilizzo di oggetti e discorsi del reale, è una tendenza che conta già i suoi anni ed è ancora in corso, basata su un recupero materiale e di significato. Il riutilizzo è un atto politico. Nel quotidiano e nell’arte.
Non solo perché ogni oggetto ha un costo, e viene fuori da un sacrificio. Ma perché spesso quel sacrificio ha alimentato false utopie di progresso, secondo un processo fine a se stesso tipico della mentalità coloniale. Disposta a costruire solo per creare benessere e guadagno de-localizzato, non previsto per i luoghi toccati.
Da questo principio scaturisce tutta l’opera di Ibrahim Mahama, che per anni ha attraversato il Ghana per recuperare materiale abbandonato dagli inglesi, compresi treni, sacchi di iuta per il trasporto di cacao, aerei, quaderni, scarpe, riportando il ragionamento intorno alla politica imperialista al suo punto di origine con il Parliament of Ghosts a Manchester .
Il fallimento del passato, espresso attraverso la devastazione ambientale, lo sperpero di risorse, può essere vita per il presente e per il futuro.
Perché se da un lato impiegare gli abitanti del luogo per un’anima artistica a Silos per lo sfruttamento del cacao, crea lavoro e legame umano, trasportare per 700 km il corpo di un aereo in disuso crea legame culturale con la popolazione esposta a quello spettacolo, e spinge la riflessione su cosa si è stati e cosa si può diventare a partire dalle occasioni perdute.
Il soggiorno napoletano di Ibrahim nel novembre 2020, voluto dal Madre, dalla Fondazione Donnaregina e la Business School della Luiss, ha portato a due opere: Red Rivers e Garden of Eden, che miscelano l’esperienza ghanese con quella napoletana.
I due collage, al Madre a partire da marzo 2021, vedono la sovrapposizione fotografica di scenari legati alle aree industriali di San Giovanni a Teduccio e l’area abbandonata della Italsider di Bagnoli, con equivalenti costruzioni ghanesi, aprendo ad una riflessione con più di un punto in comune.
Perché se quella del Ghana è storia coloniale, lo è anche quella dell’industria abbandonata nel cuore di una città’ europea, con l’abbrutimento territoriale, lo sfruttamento fisico della popolazione, milioni di tonnellate di materiale inutilizzato, l’inaccessibilità’ di migliaia di chilometri quadrati di territorio in una città’ da sempre alle prese con un problema di spazio.
Un lavoro di re-energize, come detto in un articolo del Guardian, quello di Ibrahim, in dialogo con una realtà fattuale che può aprire scenari futuri non utopici, a differenza di quelli propri della visione progressista della sfruttamento territoriale.
Tra rivalutazioni, recuperi, bonifiche culturali, con al centro ecologia e eco-compatibilità del sistema produttivo, il Madre porta a Napoli due artisti internazionali capaci di rendere il Museo un luogo aperto al confronto sulla crisi. Che sia questa sanitaria, sociale o ambientale. E lo fa con la semplicità del quotidiano, correndo come se si giocasse.
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