Riceviamo e volentieri pubblichiamo l’articolo su un maestro della fotografia, di cui ricorrono oggi i 200 anni dalla nascita, firmato da Giovanni Ruggiero, giornalista professionista, che per anni ha lavorato come inviato speciale per il quotidiano “Avvenire”. La passione per la fotografia l’ha scoperta da adolescente e da allora non si è più fermato a immortalare la realtà che ha assemblato anche nelle sue valigie di ricordi, trasformate in esposizioni italiane e internazionali. Una delle sue opere opera fa parte di “Imago Mundi – Luciano Benetton Collection”, riportata nel catalogo “Doni – Authors from Campania”.
Gaspard-Félix Tournachon nacque a Parigi il 6 aprile 1820, giusto duecento anni. Il nome Tournachon non dice niente a nessuno… ma se diciamo Nadar, il nome dice molto! Egli stesso, ormai personaggio di spicco sulla scena bohèmienne di Parigi, si rese conto, accingendosi a immortalare con il suo apparecchio fotografico i personaggi più celebri della cultura e della società parigina, si convinse che l’insegna Nadar, sulla facciata del palazzo dove viveva e lavorava, prima al numero 113 di Rue Sainte Lazare e poi al 35 del Boulevard des Capucines, potesse avere molto più fascino e capacità attrattiva del cognome borghese Tournachon.
Era una forza della natura, esuberante, straripante, irrequieto, geniale. Cominciò con il giornalismo (dopo aver abbandonato gli studi di medicina, passando di redazione in redazione. Gérard de Nerval, suo grande amico, lo presentò ad Alphon Karr che ce ne dà un veloce ritratto: «Quel giorno Gérard de Nerval mi portò una specie di gigante, dalle immense gambe, lunghe braccia, torso ampio e soprattutto una testa rizza di capelli rossi, di occhi vispi, intelligenti. “È Tournachon. – mi disse Nerval – Ha molto spirito ma è una bestia. Bisogna trovargli di che vivere al Journal, però bisogna diffidare di lui. Può giocarci dei brutti tiri, anche se ha un cuor d’oro ed è onesto”»
Ne fa invece un ritratto a tutto tondo Jules Verne, suo grande amico ed estimatore. «Quest’uomo sorprendente – scrive Verne – viveva in perpetua disposizione all’iperbole e non aveva ancora passata l’età dei superlativi : gli oggetti si disponevano sulla retina dei suoi occhi con proporzioni smisurate e da ciò un’associazione di idee gigantesche: vedeva tutto in grande meno le difficoltà e gli uomini» Chi poteva avere l’idea, sennò, di sorvolare Parigi con un pallone aerostatico per fotografarlo, o immaginare quel Pantheon Nadar di centinaia di litografie, gigantesco, o spingersi nelle viscere di Parigi per immortalare un mondo sotterraneo e sconosciuto? «Era uno di quei tipi che il creatore inventa in un attino di fantasia – aggiunge Verne – e di cui distrugge subito lo stampo». Va detto che Jules Verne dice questo di Michele Ardan, personaggio del suo romanzo “Dalla terra alla luna”… ma provate a fare l’anagramma di Ardan… Salta fuori Nadar!
Per il futuro Nadar la strada giusta non è il giornalismo, quando invece sarà determinate per il suo destino di fotografo l’intensa attività di caricaturista. «Nadar – ha ricordato anche di recente Diego Mormorio nella sua “Storia essenziale della fotografia” – porta con sé, nel suo lavoro di ritrattista, l’elemento fondamentale dell’esperienza di caricaturista: la capacità di cogliere i tratti essenziali del volto». Così oggi, a proposito delle sue foto, noi possiamo parlare di “ritratti intimi”, perché coglie quel segreto di ciascuno. «Coloro che si pongono davanti al suo obiettivo – è sempre Mormorio a dircelo – non vengono chiamati a sorridere o assumere pose particolari. Ognuno si atteggia come vuole, anche se il fotografo comunque impedisce al soggetto ogni posa sopra le righe. Non ama altro che l’essenzialità.»
Va però considerato anche che i tempi di esposizione (i tempi di posa, se vogliamo), quando per le scale che portano allo studio di Nadar cominciano a salire i Rossini, i Dumas, i Baudelaire, i Gautier, i Delacroix i Manet e tanti altri, si sono ridotti enormemente grazie al collodio. Questo nuovo ritrovato che si sensibilizza alla luce, salutato come miracoloso, sarà utilizzato a partire dal 1852 e apre una nuova era per la fotografia. Erano sufficienti due secondi e non erano più necessarie pose interminabili.
«Ogni ritratto – scriveva Lèon Krafft, riferendosi a quelli ottenuti con una lunga posa – ha questa caratteristica particolare, di rappresentare la persona con uno sguardo duro, seriosa imbronciata, comunque non naturale. E tutto questo dipende da una luna seduta di posa. Ora con il collodio non c’è più bisogno di posare. (…) Vi si riproduce insomma con la vostre fisionomi abituali, la vostra aria più naturale. La persona, essendo seduta una certa distanza dall’apparecchio del fotografo, può chiacchierare con lui, si può distrarre, distendersi, tanto più che costui ormai lâche la dètente du fusil.: molla la presa del suo fucile».
Krafft scriveva questo nel 1852. Nadar figlio del collodio? Nota Marco Vallora nella presentazione di “Nadar. L’arte del ritratto” (Abscondita. 2010): «Tutto ciò (parliamo della velocità insperata del collodio) non poteva che sedurre un artista dalla rapidità enorme come Nadar, abituato, con la caricatura, ad afferrare in un bagliore sornione i tic, i difetti fisici, i tratti salienti delle persone che ha di fronte e che vuole caricare, appunto come un fucile. Conversa amichevolmente e intanto la fotografia si compone, come da sola».
Nadar non abbandonerà mai del tutto il collodio anche quando si faranno avanti le lastre alla gelatina di bromuro d’argento. La grandissima parte dei 400 mila negativi conservati sono infatti ottenuti con la tecnica inventata da Frederick Scott Archer.
È il ritratto a diffondere la fotografia, a decretarne il successo, a consacrarla. Merito dei tantissimi Nadar, noti e meno noti, o rimasti addirittura sconosciuti. Potersi far rappresentare, raffigurare, è una affermazione di sé. Una possibilità, quando il ritratto è offerto dai pittori, riservata soltanto ai potenti e ai privilegiati.
Nadar (e lo farà meglio André Adolphe Eugéne Disderi anche se non con lo stesso spessore artistico) non immortala soltanto una classe privilegiata di intellettuali o di ricchi borghesi; poiché la fotografia diventa economicamente accessibile a molti, inizierà a fotografare anche il ceto medio. Søren Kierkegaard vedeva ad esempio nella scoperta della fotografia di ritratto il sintomo di un livellamento sociale. «Per secoli – scrive Pierre Sorlin nel saggio “I figli di Nadar”, riassumendo il pensiero del filosofo danese – ordinare il proprio ritratto era stato un privilegio di persone facoltose il cui potere e la cui ricchezza diventavano in tal modo manifeste agli occhi di tutti, ma la riproduzione meccanica, ponendo i cittadini anche modesti nella condizione di farsi fare il ritratto, comportava, in maniera quasi automatica, la soppressione di almeno una barriera sociale, quella delle apparenze». Si potrà dire, seguendo questo pensiero, che l’aristocrazia abbia perso, col ritratto da cavalletto del pittore, uno dei segni distintivi della propria superiorità.
Dobbiamo anche a Nadar notizie su come il pubblico si disponesse davanti a questo strumento nuovo che era la macchina fotografica. Oggi è un fatto naturale, del tutto quotidiano, porsi davanti a un obiettivo. Ma nella prima metà del 1800? Non doveva essere poi così tanto semplice, con mille remore da vincere, timori ed anche delusione nel non riconoscersi nella propria immagine ritratta che, evidentemente, non corrispondeva all’idea che ciascuno aveva di sé. Nel 1900 venne pubblicato il primo libro di memorie di Nadar, “Quand j’étais photographe”, che è oggi una miniera preziosa per comprendere questo atteggiamento del pubblico nei confronti della macchina.
Nel Pantheon fotografico di Nadar ci sono poche donne. Il perché è semplice: «Egli – ha spiegato Diego Mormorio – diceva che la fotografia è troppo fedele per piacer loro, sottintendendo con ciò che, potendo scegliere, anche le più belle preferivano l’adulazione dei pittori.»
Ma gli uomini non erano da meno. Ecco un’osservazione di Nadar: «Abbiamo attribuito alle donne una reputazione di civetteria, ma questa sollecitudine costante per l’effetto provocato dal proprio aspetto fisico, la civetteria, si potrebbe tanto più rimproverare agli uomini. Niente nella donna può pareggiare la fatuità di certi uomini, e la costante preoccupazione del loro “apparire” nella maggioranza di essi. Quelli che fingono il maggior distacco sono precisamente i più malati.»
È da credergli perché, assicura, «l’ho troppe volte constatato e nella posizione più adatta per verificarlo». Ogni fotografo può confermare che, guardando il mondo da un mirino, si notano tante di quelle cose che sfuggono a occhio nudo.
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I PERSONAGGI DEI RITRATTI
Charles Baudelaire. È nota la stroncatura della fotografia, a tratti anche feroce e velenosa, che Baudelaire fece della fotografia in occasione del Salon del 1859. Per l’autore dei “Fiori del Male”, i fotografi erano pittori mancati e la fotografia non poteva considerarsi arte perché riproduzione meccanica della realtà, ottenuta senza mediazione alcuna. Al più, la fotografia poteva aspiurare a diventare ancella della pitura. Il giudizio di Baudelaire, che tuttavia non disdegna di posare per Nadar (ed anche altri fotografi), peserà come un’ipoteca sui giudizi critici intorno alla fotografia.
Gustave Doré. Artista estremamente eclettico e poliedrico (fu versatile in tutte le tecniche) è però celebre per le illustrazioni. «Illustrerei tutto!», affermò una volta. Nel corso della sua carriera, infatti, Gustave Doré visualizzò con le sue incisioni sia i capolavori classici (Dante, Rabelais, Cervantes, La Fontaine, Milton) sia i testi di autori a lui contemporanei (Balzac, Gautier, Poe, Coleridge, Tennyson).
Alexandre Dumas (padre). Il celebre scrittore posò più volte per Nadar. Questa foto è del 1855.
Sarah Bernhardt. Nel Patheon di Nadar ci sono poche donne. Forse le donne amavano poco il ritratto fotografico. Nadar, ricorda lo storico della fotografia Diego Mormorio, «diceva che la fotografia è troppo fedele per piacer loro, sottintendendo con ciò che, potendo scegliere, anche le più belle preferivano l’adulazione dei pittori.
Edouard Manet. Nadar fu amico di tutti gli impressionisti. Nel 1874 offrì il suo studio fotografico ai pittori impressionisti, gli stessi che erano stati rifiutati dal Salon ufficiale dell’Accademia delle Belle Arti nel 1863 ai quali, tuttavia, Napoleone III offrì una esposizione parallela, passata alla storia come il “Salon des Refusés”.
Gioacchino Rossini. Dal 1830 Rossini si trasferì definitivamente a Parigi. Inizia la lunga crisi depressiva e creativa. Rossini diventa il bon vivant, celebre e osannato nei salotti più esclusivi di Parigi. Questo ritratto è del 1856. Benché la posa, grazie al collodio durasse appena due secondi, pare che Rossini amasse poco mettersi davanti a un apparecchio fotografico.
Jules Verne. Nel suo romanzo “Dalla terra alla luna” il protagonista è Michelle Ardan. Lo descrive così: «Quest’uomo sorprendente viveva in perpetua disposizione all’iperbole e non aveva ancora passata l’età dei superlativi: gli oggetti si disponevano sulla retina dei suoi occhi con proporzioni smisurate e da ciò un’associazione di idee gigantesche: vedeva tutto in grande meno le difficoltà e gli uomini.» Verne era grande amico ed estimatore di Nadar. Se si anagramma il nome del protagonista Ardan, ecco saltare fuori Nadar!
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Nella foto in alto, Nadar