“Cartoline da casa mia” è lo spettacolo scritto da Antonio Mocciola, andato in scena al Teatro de Poche di via Salvatore Tommasi (Napoli) dal 22 al 24 febbraio. Il tema degli hikimori ( i ragazzi isolati dal mondo digitale) è interpretato da Bruno Petrosino (foto) per la regia di Marco Prato. Ce ne parla in questa recensione Francesco di Maso.
Cartoline da casa mia, scritto da Antonio Mocciola per la regia di Marco Prato, sbircia nella stanza in cui si è isolato un ragazzo, Fosco, Bruno Petrosino, che ha scelto di non possedere più nulla, se non la voglia di comunicare, attraverso la forma desueta della cartolina, tutta la sua disperata e dignitosa, solitudine volontaria.
«Mi chiamo Fosco, da due anni non esco dalla mia stanza. Nessuno può vedermi, non ho bisogno neppure di vestirmi. Comunico scrivendo cartoline da casa mia. Ma non chiedetemi di uscire. Io non voglio contaminarmi» questo è l’incipit del monologo teatrale che racconta la storia del giovane Fosco, un ragazzo che ha deciso di isolarsi dal mondo rifiutando ogni tipo di contatto fisico.
Lo spettacolo porta sul palco il tema degli hikikomori. Si tratta di un fenomeno nato in Giappone ma diffuso nel corso degli anni anche in Occidente e nel nostro paese: gli hikikomori sono ragazzi che scelgono l’isolamento volontario, trovando come unici mezzi di comunicazione con l’esterno i media elettronici, Internet o come nel caso del protagonista, cartoline e lettere.
Fosco vive auto-recluso nella propria stanza, separato soltanto da una porta dai propri genitori e da uno psicologo che ogni tanto gli fa visita. Si nutre con il cibo che gli viene passato attraverso una feritoia e ha come unica fonte di aria e di luce una finestra a “bocca di lupo”. In questa condizione vive a proprio agio, perennemente nudo, lontano da un mondo e da persone che non hanno mancato di farlo soffrire. A partire da questa situazione, dalla propria storia, che inizia un racconto fatto di soprusi e violenze, più o meno volontarie.
L’argomento complesso fornisce la possibilità di affrontare numerosi temi piuttosto off limits, a partire da quello ovvio dell’emarginazione giovanile, che porta ad arrendersi, fino all’atto estremo dell’auto-reclusione, la solitudine, la depressione, per finire con quello del rapporto con il proprio corpo e all’accettazione di se stessi. Proprio quest’ultimo sembra essere il concetto di base portato avanti con il fluire del monologo.
Nel suo flusso di coscienza, Fosco racconta la sua vita, concentrandosi probabilmente in maniera involontaria, sui momenti in cui ogni figura (la madre, il padre, la nonna) o istituzione (la scuola, l’esercito) lo ha violentato affettivamente, entrando di forza nel suo intimo e nei suoi dubbi, impedendogli di crescere come avrebbe dovuto.
Antonio Mocciola ritorna a parlare di reclusione dopo Cella Zero, affrontando questa volta il tema partendo da chi ha deciso di farlo volontariamente. Il testo lascia in modo cosciente molti vuoti da colmare: detti e non detti da interpretare, bugie pronunciate dal protagonista che andrebbero scovate per capire le vere motivazioni della sua scelta ed è questo il primo elemento di fascino dell’opera.
Colpisce la bravura del giovane Bruno Petrosino, messo davanti ad un ruolo davvero complicato, non solo sul piano fisco ma anche su quello emotivo. L’attore mostra infatti di aver svolto un lavoro approfondito che gli permette di mantenere l’interpretazione sempre sul limite, riuscendo a rappresentare un bambino violato, un uomo mai cresciuto, senza cadere mai in patetismi, rischio che si corre con testi di questo tipo.
La regia di Marco Prato mostra gusto eccezionale e colpisce per un’estetica minimale, sia nel dirigere i movimenti del corpo in scena, che nella scelta di giochi di luci e suoni.
Petrosino, costretto in uno spazio limitato, viene disegnato in un quadrato come una sorta di anti-Uomo Vitruviano, esaltato da una composizione a livello di luci davvero raffinata. Sapiente e per niente banale l’uso delle musiche, che passa dalla techno alla musica atonale, contribuendo a creare un’atmosfera angosciante e claustrofobica.
Francesco Di Maso