A Palazzo Zevallos, in via Toledo 185, Napoli, è in corso, fino a settembre, la mostra “Los Angeles”(State of mind). Ce ne parla Carmine Negro in due articoli. Di seguito la seconda e ultima parte.

Rita McBride Chairs (Blue), 2000,
vetro di Murano e plastica (Murano glass and plastic),
3 elementi 90 x 42 x 53 cm ciascuno, Alfonso Artiaco, Napoli


SECONDA PARTE
“L’arte è l’incontro inatteso di forme, spazi e colori che prima si ignoravano[1] e la mostra Los Angeles (State of Mind) ne è una prova. Dopo il periodo di segregazione pandemica giovedì 27 maggio 2021, con il mio amico Luciano, sono andato a visitare il piccolo ma effervescente laboratorio artistico dell’associazione “MaTer.y.Ka” nel centro antico.
È piacevole riscoprire la relazione con l’altro, che la mascherina segnala ancora come un pericolo, passeggiare guardando le vetrine e non solo gli assembramenti, ritornare a casa non più luogo di confino e segregazione.
A Toledo Palazzo Zevallos promuove una nuova esposizione del ciclo dedicato alle capitali mondiali dell’arte contemporanea: è un invito a visitarla. Decidiamo di entrare, lasciarci sorprendere da un’arte che spesso è un ritorno all’infanzia[2], raccogliere quell’aspetto emozionale che spesso ne rivela l’anima più profonda.
Il mattino successivo sono ritornato per una visita più consapevole. Al piano terra resto colpito dall’installazione Chairs (Blue) del 2000 di Rita McBride. Michael Thonet alla fine del XIX secolo con l’ausilio di una nuova tecnica di piegatura a vapore del legno, l’utilizzo delle viti al posto dell’incollaggio, la possibilità di produrre grandi quantità di elementi separati, da poter assemblare in loco, produce una sedia che incarna il primo moderno articolo prodotto in serie.
L’artista americana la priva di seduta e al posto del robusto e durevole legno curvato, utilizza il prezioso vetro di Murano, lavorato a mano, che assembla, nei punti in cui il modello industriale viene solitamente avvitato, con un involucro di plastica commerciale. In questa, come in altre sue opere, Rita McBride, preleva gli oggetti di uso quotidiano dal loro contesto, gioca con i materiali e ne interroga gli aspetti intrinseci attraverso spostamenti formali.
Spogliato della sua funzione storica il manufatto si trasforma in puro fenomeno visivo, diventa una singolare scultura e invita lo spettatore a interagire, esplorare e persino a riconfigurare l’oggetto: in una parola a riflettere.
Mentre vago tra questi pensieri mi accorgo dell’intensità con cui una signora sta guardando un filmato che viene proiettato proprio nel salone d’ingresso poco lontano da me.

Gary Hill, Isolation Tank, 2010-2011,
installazione video/audio a singolo canale HD
Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli

L’autore si chiama Gary Hill. Nel suo video Isolation Tank (2010-2011), proiettato in loop[3], una tavola da surf ondeggia nell’oceano fino a farsi inghiottire dall’acqua, allegoria dell’esistenza che si abbandona al flusso degli eventi.
Mentre mi allontano la signora si avvicina e mi dice che questo americano è un precursore della video arte e che in questo video usa il 3D per creare una immagine poetica. La tavola di windsurf alla deriva è come un’esistenza che si lascia cullare dalle onde degli eventi fino a farsi sommergere “… come spesso succede alle nostre vite”.
Questa riflessione mi colpisce … torno a rivedere il video. Una osservazione più attenta mi fa cogliere altro. Una telecamera, come un elicottero, si avvicina lentamente all’oggetto sulla cui superficie si può intravvedere un morphing[4] quasi impercettibile tra un volto, forse quello dell’artista, ed una immagine scura che successivamente identifico con una divinità orientale: il Mahakala[5].
Quando il rumore dell’elicottero diventa più forte, un’onda anomala si solleva dal nulla e getta un muro d’acqua sulla tavola da surf spingendola sott’acqua. Anche il suono dell’elicottero, come se fosse andato sott’acqua, cambia per poi riemergere: si innalza sopra la scena, increspa la superficie dell’acqua intorno alla tavola da surf, torna al punto di osservazione iniziale.
L’immagine grigia del video viene presto sostituita dai colori caldi e vivaci del dipinto Peuw-Spushtish orn Shmool [6] (1999) di Ingrid Calame. L’artista spinta dal desiderio di “conoscere il mondo”, nei suoi lavori riprende i segni delle superfici, e li trasforma in dipinti, disegni, stampe e murales dai motivi intricati.

Ingrid Calame
Peuw-Spushtish orn Shmoo!, 1999,
smalti su alluminio), 61 x 61 cm.
Galleria In Arco, Torino


Come spiega:l’idea è che l’intera superficie del mondo è un potenziale disegno. Non riuscendo a tracciare il mondo intero, ne traccio un frammento[7]“: cerco “di conoscerlo attraverso una sorta di micro-mapping[8]”.
Si tratta quindi di riesumare segni da spazi trascurati, come quelli lasciati dalla street art, indicatore di un’eredità politica, recuperare tracce urbane spesso cancellate o nascoste, catturare impronte delle disavventure involontarie della nostra esistenza come le sagome di macchie – residui urbani – trovati per le strade di Los Angeles.
È il paesaggio urbano notturno Rising Sun a rappresentare l’opera di Doug Aitken un artista contemporaneo noto per le installazioni che incorporano video, fotografia, scultura e performance. L’artista utilizza il film come mezzo per espandere le nozioni tradizionali dell’arte. “Stiamo vivendo in un paesaggio tremendamente nuovo e la possibilità di ciò che può essere creato è immensa“, ha detto Aitken.

Doug Aitken
Rising Sun, 2002,
stampa cromogenica su plexiglass (ed. 6/6)122 x 154 cm.
Galleria In Arco, Torino


Questi strumenti dell’immagine in movimento hanno una storia relativamente breve nell’arte e cosa possiamo fare con loro è ancora in gran parte sconosciuto. Stiamo ancora innovando e trovando modi per raccontare storie”.
La pittura acida e simbolica di Lari Pittman, madre colombiana di origine italiana e padre americano, è rappresentata daUntitled#11 del2003. Nelle sue opere la sofferenza convive con la bellezza e dietro l’opulenza delle forme si cela la narrazione di traumi collettivi,  politici e personali solidamente ancorati ai malesseri e alle contraddizioni della società americana; i suoi lavori raccontano la vita e la morte l’amore e il sesso.


Lari Pittman
Untitled #11,2003,
olio, lacca spray, cel-vinyl
su tela gessata su tavola  193 x 259 x 1 cm.,
Thomas Dane Gallery and Regen Projects, Los Angeles


Melissa del 1993 e Cathy (London) del 2017 sono le opere proposte di Catherine Opie[9] un’influente fotografa che con le sue opere esplora strati della nostra società concentrandosi su gruppi particolari: giocatori di football delle scuole superiori, partecipanti in pelle S&M[10], la comunità LGBTQ[11].
Le sue fotografie presentano una figura centrale che occupa uno spazio appiattito. La rimozione dei dettagli esterni consente di evidenziare la vita interiore del soggetto. Opie con le sue raffinate foto indaga la cultura queer e la storia personale. Spesso crea opere autobiografiche, informate dalle sue esperienze di donna lesbica, ponendo domande sulla comunità, sull’identità e sulla storia.
Mike Kelley, artista poliedrico che si è cimentato in performance, video, installazioni, fotografia, interventi sonori, testi e scrittura, morto suicida a 58 anni è una figura di spicco dell’area creativa californiana.

Mike Kelley Test Room Containing Multiple Stimuli Known to Elicit Curiosity and Manipulatory Responses (Blonde Bandura Action),2001,
stampa cromogenica su plexiglass, 3 elementi 74 x 126 cm ciascuno
Galleria In Arco, Torino

Dopo gli splendori degli anni ottanta, questa area si è caratterizzata per la visione cupa e disincantata di un’America dove il grande sogno è stato divorato dalla banalità, dal consumismo, dai mass media. Le tre foto presenti in mostra Test Room Containing Multiple Stimuli Known to Elicit Curiosity and Manipulatory Responses (Blonde Bandura Action) del 1999 documentano l’installazione: in un’area ingabbiata dei performer che si accaniscono contro immagini surrogate dei propri genitori[12].
Nei suoi dipinti cinematografici, Eric White, in mostra con 1938 Dodge Brothers Business Coupé[D8] (Doble Indemnity) del 2011 presenta scene realistiche con un tocco visivo surreale. Per i materiali di partenza, White si rivolge ai film di Hollywood degli anni ’40 e ai film noir. Comprimendo una sequenza di eventi in un unico momento, White crea scene claustrofobiche popolate da figure glamour rinchiuse in un ambiguo dramma psicologico.
La Los Angeles di oggi guarda soprattutto alla Black Culture, fenomeno che si manifesta in tutta la sua urgenza sociale e costituisce l’asse portante di rinnovamento critico della cultura americana.
Umar Rashid, il cui nome d’arte FrohawkTwoFeathers fa riferimento alle tribù dei nativi americani, attraverso il disegno, l’illustrazione, la scrittura e la pittura. Inscena narrazioni alternative accanto a tematiche forti quali la mescolanza di generi, razza e classe.
Nel suo mondo immaginario spazza via le dicotomie di bianco/nero padrone/schiavo rapitore/prigioniero. È presente con due opere a inchiostro e tela su carta What You Won’t Do for Love, Wach it Born del 2019 e The Woman Who Sold the World. A Full Pound of Ceylon Gold upon Her Crown del 2019.
Henry Taylor, nei suoi ritratti, dipinge  parenti, amici, celebrità e atleti. Una promiscuità sorprendente in una Los Angeles dove gli incontri tra classi sociali sono regolati e soprattutto separati da cancelli, distretti, ghetti, muri e fasce di reddito[13].
Taylor ha lavorato per un decennio come infermiera psichiatrica in un ospedale statale in California: Dipingo quei soggetti per i quali ho amore e simpatia“. In Ardmore Taylor aka “Mo”, del 2005, raffigura il nonno seduto sotto un portico con una pistola e un fucile da caccia emblemi del suo stile di vita fino al 1933, anno in cui fu ucciso per essersi rifiutato di raccogliere cotone in una piantagione. Non solo una storia di famiglia ma un racconto rappresentativo di tante persone perseguitate dalle ingiustizie sociali.
Il lavoro di Eric Wesley, in mostra con Reputation (Sailor Doctor, 401K, mybrother, myspace, 1084) del 2018, offre un punto di vista originale e spesso dissacrante del quotidiano. Come nelle altre mostre del ciclo dedicato alle metropoli (New York, Londra e Berlino), ancora una volta è stretto il rapporto di Napoli con l’arte internazionale.
Gli operatori culturali di Napoli, galleristi e collezionisti, non hanno mancato l’appuntamento. Lia Rumma, con il video di Gary Hill, Alfonso Artiaco, con la pittura di intensa atmosfera cinematografica di Glen Rubsamen che nelle sue opere mostra un mondo disabitato e quasi aggressivo.
Una natura aggredita che fa pensare ai devastanti postumi di una catastrofe meteorologica o tecnologica. L’assenza di figure umane, la tendenza al monocromo e alla mancanza di riferimenti spazio-temporali, creano un’atmosfera carica di austera quiete e spiritualità.

Glen Rubsamen
Piss & Vinegar, 2013,
acrilico su lino, 193 x 152,4 cm.,
Alfonso Artiaco, Napoli


I dipinti di Glen Rubsamen sono fortemente influenzati dalla sua vita a Los Angeles. Palme appiattite, cartelloni pubblicitari, linee elettriche e attrazioni lungo la strada, sono spesso dipinte di nero contro cieli luminosi, nei colori caldi del tramonto, verdi e gialli acidi e blu sognanti. L’opera di Allan McCollum proviene dalla collezione Trisorio e nasce direttamente dai siti archeologici di Pompei. La cavità di un cane fu scoperta il 20 novembre 1874, in casa di Marco Vesonius Primus. Durante l’eruzione, lo sfortunato cane, con indosso il suo collare borchiato di bronzo, lasciato incatenato al posto assegnatogli per sorvegliare la casa, soffocò sotto la cenere.
I calchi di Allan McCollum moltiplicati in collezioni che variano per numero, da piccole unità a diverse migliaia, sradicano il concetto di unicità ed esclusività dell’opera e ad esso sostituiscono il modello basato sull’abbondanza e la disponibilità.
Pur nella ripetizione sono unici per sottili variazioni se identici vengono collocati in posizioni diverse per creare teatralità all’interno dello spazio. Le sculture collocano al centro della riflessione il ruolo della memoria e la riappropriazione del passato. L’oggetto che ne risulta ha un’identità ambigua tra artefatto unico e produzione di massa.
Molto particolare il lavoro di James Brown, scomparso tragicamente nel febbraio 2020, che comprende un gruppo di settantasette disegni ispirati al libro “Guida sacra della città di Napoli” di Gennaro Aspreno Galante del 1872, con 177 piccoli fogli dalla grafica essenziale e precisa che l’artista regalò al gallerista Lucio Amelio negli anni ottanta.
La Galleria Fonti, infine, oltre al pittore concettuale Eric Wesley rappresenta l’artista napoletano Piero Golia, che da oltre quindici anni ha scelto di vivere a Los Angeles. “Ho sempre avuto problemi con il modello astratto. Mi interessano di più gli interstizi tra poesia e realtà. E con l’arte, in un certo senso, sto cercando di fare la stessa cosa spingendo la realtà a diventare astrazione e poesia[14] (Piero Golia). La sua produzione esplora le possibilità dell’arte attraverso performance e installazioni sempre piuttosto enigmatiche. In mostra Untitled (Carpet) del 2020 prodotto per questa mostra su cui è disegnata con vernice spray una freccia che indica la direzione da seguire per raggiungere la sua abitazione privata a Los Angeles.

James Brown
Guida sacra della città di Napoli,1987,
77 disegni su carta 100 x 130 cm.,
Studio d’Arte Raffaelli, Trento

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Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole.”[15] In essa l’arte, va sempre alla ricerca di nuove forme e nuovi modelli, prova a cogliere quei mutamenti che ridefiniscono un territorio e a comprendere quelle trasformazioni che caratterizzano un tempo; l’arte contemporanea ci prova con i nostri fluidi tempi, omologati e differenti, mascherati e sofferenti.
Spesso si cimenta ad afferrare quel rapporto impalpabile che è la relazione che esiste tra spazio e tempo: la velocità che rappresenta uno dei tratti-chiave e degli aspetti più caratteristici e pervasivi della nostra società. La ritroviamo nelle operazioni più comuni, negli spostamenti, nelle relazioni sociali a molteplici livelli: per questo non può essere tralasciata o sottovalutata. L’arte in movimento, sempre più integrata e interlacciata con le forme più tradizionali, ne traccia le narrazioni e ne sottolinea i limiti.
C’è poi la pandemia che ha modificato e ancor più modificherà comportamenti e relazioni nello spazio e nel tempo. Los Angeles, nell’immaginario collettivo, più di altre incarna il sogno americano: la città del sogno. Gli artisti, sottolineando limiti e contraddizioni di questa megalopoli (ingiustizia, violenza, sopraffazione, aggressione selvaggia dell’ambiente e spersonalizzazione) cercano nuove soluzioni, hanno in sogno di una città differente.

Allan McCollum
The Dog from Pompei, 1991,
hydrocal rinforzato con fibra di vetro fuso 3 elementi 53,3 x 53,3 x 53,3 cm ciascuno
Collezione Trisorio, Napoli


Tra Settecento e Ottocento Napoli è stata una grande capitale, ha attirato visionari e professionisti che con le loro idee l’hanno resa più bella e più ricca.
Oggi la città langue in un dormiveglia di colore grigio, priva di un piano per il presente e di un progetto di futuro che sappia coinvolgere e far sognare: un male terribile per una città scoppiettante, creativa e colorata. I suoi abitanti sono rinchiusi nella monotonia del quotidiano e quelli che cercano pane e poesia costretti all’esilio. Eppure sono bastati timidi segnali visionari e la città ha realizzato una metropolitana bella” e interessante. Dobbiamo trovare un modo, per realizzare un luogo accogliente dove giovani e meno giovani, pensatori e sognatori, pratici e teorici, uomini e donne, tutti, ma proprio tutti, si sentano costruttori di una nuova città, una Nea Polis.
«Non vi sto dicendo che dovete cercare il vostro scopo… Trovare il vostro scopo non è abbastanza, la sfida per la nostra generazione è creare un mondo in cui ognuno senta di avere uno scopo».[16]
Lo scopo dei singoli, quando condiviso, diventa il sogno di una comunità, di un paese … di un’umanità da sempre alla ricerca di un proprio percorso di vita.
©Riproduzione riservata 
(2.fine)


NOTE

[1] Fabrizio Caramagna

[2] L’arte moderna è – in quanto vale – un ritorno all’infanzia. Suo motivo perenne è la scoperta delle cose, scoperta che può avvenire, nella sua forma più pura, soltanto nel ricordo dell’infanzia. Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 1935/50 (postumo 1952)

[3]Loop Struttura o circuito ad anello, nel nostro caso cortometraggio proiettato in sequenza ciclica

[4]Il Morphing è uno dei primi effetti digitali sviluppati dall’industria cinematografica e consiste nella trasformazione fluida, graduale e senza soluzione di continuità tra due immagini di forma diversa

[5]Mahakala è un protettore del Dharma nel buddismo tibetano solitamente raffigurato con una corona di cinque teschi che rappresentano la trasmutazione dei cinque klesha, o afflizioni negative, nelle cinque saggezze. Rappresenta anche e soprattutto la morte dell’ego.

[6] Questo dipinto fa parte del gruppo di opere denominate Onomonopeas (1994-2005)

[7] https://www.interaliamag.org/articles/ingrid-calame-tactile-maps/

[8]Harmon, Katharine; Clemens, Gayle (2009). The Map as Art: Contemporary Artists Explore Cartography. New York, NY: Princeton Architectural Press. p. 106. ISBN 978-1-56898-762-0

[9]http://www.artnet.com/artists/catherine-opie/

[10] Indossare capi di abbigliamento di pelle è uno dei modi che i partecipanti di questa cultura utilizzano per distinguersi consapevolmente dalle culture sessuali tradizionali.

[11] LGBTQ  è un sigla che sta ad indicare la comunità lesbica, gay, bisessuale, transgender e queer (questi ultimi mettono in discussione la propria identità sessuale o di genere).

[12] L’artista fa questa affermazione: Paese cinico in cui l’arte è una realtà disfunzionale, l’artista un perdente. Los Angeles State of Mind a cura di Luca Beatrice Catalogo mostra Edizioni Gallerie d’Italia Skira. Pag. 76

[13] Los Angeles State of Mind a cura di Luca Beatrice Catalogo mostra Edizioni Gallerie d’Italia Skira. Pag. 144

[14]https://gagosian.com/artists/piero-golia/

[15]Italo Calvino, Invisible Cities


[16] Discorso di Mark Zuckerberg, ai laureandi di Harvard Il 25 maggio 2017

Henry Taylor
Ardmore Taylor aka “Mo”,2005,
acrilico su tela, 193 x 106,7 cm.,
Collezione privata | Private Milano

PRIMA PARTE
/LOS ANGELES, METROPOLI COME STATO D’ANIMO. UN INCROCIO DI STORIE, LINGUAGGI, POPOLI

Comprendere la genesi e la stratificazione di un grande centro urbano vuol dire osservarlo nello spazio e analizzarlo nel tempo, perché una città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano[1].
L’area in cui si trova la città di Los Angeles era anticamente abitata dagli indiani Apache e Navajo; nel 1542 fu conquistata dagli spagnoli e popolata dai Gesuiti. Nel 1767 Carlo III di Spagna, fino al 1759 re di Napoli, ordinò l’espulsione dei Gesuiti dalle terre americane e consentì il successivo stanziamento dei Francescani.
Nel 1781, il governatore Felipe de Neve, con un gruppo di spagnoli, indiani e schiavi, inaugurò il primo insediamento dedicato all’ordine francescano e denominato  “El Pueblo de Nuestra Señora la Reina de los Ángeles de Porciúncula”.
Los Angeles rimase una città spagnola fino al 1821, anno in cui il Messico ottenne l’Indipendenza dalla Corona spagnola e la California entrò a far parte della giovane nazione messicana: nel 1839 divenne capoluogo della California. L’americano John C. Fremont, nel 1846, occupò Los Angeles sottraendola ai messicani.
Due anni dopo, il 2 febbraio 1848, con la firma del Trattato di Guadalupe Hidalgo, si concluse la guerra fra Messico e Stati Uniti d’America e il territorio fu diviso in Alta California, che diventava ufficialmente territorio degli USA, e Bassa California, che continuava a far parte del Messico. Attualmente Los Angeles è la terza città più grande del Nord America, dopo Città del Messico e New York City. Sospesa tra la distesa d’acqua dell’Oceano Pacifico e la “striscia di fuoco” della faglia di Sant’Andrea, la città conserva ancora un cuore antico con le costruzioni risalenti alla sua fondazione a ridosso della strada Olvera.
Un’area metropolitana che impressiona per la sua grandezza, che meraviglia con le sue incredibili architetture, che affascina con i grattacieli del Downtown, centro amministrativo e città nella città, dove i quartieri sono strutturati per concetti tematici come moda (Fashion District), cultura orientale (Little Tokyo), cultura cinese (Chinatown), arte contemporanea (The Broad).
Los Angeles, megalopoli che ospita persone provenienti da più di 140 paesi che parlano 224 lingue diverse, incarna, più delle altre città USA, il desiderio di chi va alla ricerca di fortuna nella vita e nel lavoro: il sogno americano. Uno su sei dei suoi abitanti ha un lavoro creativo e, oltre che nel mondo del cinema e della tv, molti lavorano in settori come la moda, l’arte, l’architettura, il design, la musica, la  letteratura e il teatro. Di sicuro è una delle città più creative del mondo.
I suoi musei e la fiorente scena artistica, hanno un vantaggio sperimentale che spesso manca in altre capitali culturali. Non ultimo, ha un clima temperato tutto l’anno. Anthony  Kiedis, musicista americano e tra i fondatori del gruppo rock Red Hot Chili Peppers, cosi la descrive: Los Angeles mi ha incantato quando ero bambino con la sua energia, e penso che lo faccia anche alla gente. C’è qualcosa del deserto, l’elettricità, le palme, che promette che tutto è possibile. … qui è dove vieni ad esplorare il tuo sogno: che tu lo voglia o no, il sogno diventa realtà, fallisci miseramente o qualcosa del genere, oppure trovi un altro sogno che non pensavi nemmeno ti stesse aspettando …. Do merito all’incantevole atmosfera di questo posto, la natura intrinseca di Los Angeles e della sua valle, le sue montagne, il suo deserto e i suoi coyoti. È una specie di magico inganno”.

Ed Ruscha, Fuel Troubles 1973 Polvere da sparo e pastelli su carta 20×75 cm
Collezione Luigi e Peppino Agrati – Intesa Sanpaolo

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“New York – ha spiegato al “Los Angeles Times” l’artista Scott Campbell – ha respinto la comunità degli ‘strambi’, degli artisti, dei creativi. Lì la gente compra arte per investimento e poi la chiude nei magazzini, a Los Angeles le persone appendono le opere al muro. E danno loro una vita”.
Per il mondo intero, è sempre stata la città del cinema, la mecca dello star system hollywoodiano: nessuno si aspettava che un giorno Los Angeles sarebbe diventata una capitale mondiale dell’arte.
La mostra di palazzo Zevallos racconta una città che custodisce storie e linguaggi di tanti popoli, che parla molte lingue e che vede l’arte come un mondo fatto di sperimentazioni, performance estreme e contaminazione con le culture lowbrow[2] alternative, attraverso le opere di diverse generazioni di artisti che vanno dagli anni dagli anni Settanta ad oggi.
All’inizio, negli anni settanta, stili e linguaggi si sovrappongono senza che un genere riesca a prevalere sugli altri. Le ultime esperienze di pittura astratta di Sam Francis, caratterizzate da organizzazione dello spazio e lirismo del colore, relegato ai margini della tela (Untitled del 1964), coesistono con la Pop Art di Edward Ruscha.
La poliedrica attività di Ruscha, a Los Angeles dal 1956 come grafico in un’agenzia pubblicitaria, coniuga Pop-Art, Astrattismo, Realismo, Minimale e Concettuale ed ha una profonda influenza sulle generazioni successive. Le due opere Colored People e Fuel Troubles del 1973 indagano sulla relazione tra mondo visivo e mondo verbale. La scritta, in assenza di altri elementi, viene esplorata con ironia nel suo potere evocativo enfatizzato dalla realizzazione in prospettiva.
Una critica anche non troppo velata all’esaltazione dei media e dei consumi. L’arte non deve essere mai noiosa, questo dice John Baldessari (artista concettuale) ai suoi studenti.
Presente con Man with handlebar mustache, two branches (5 parts) del 1992 (Uomo con baffi a manubrio, due rami), combina gli elementi utilizzati, sia visivamente che concettualmente, facendo spostare lo sguardo di chi osserva da un elemento all’altro.
Al centro troviamo la fotografia in bianco e nero dei rami di un albero a cui l’artista ha aggiunto una pennellata gialla per suggerire un ramo in più. L’interazione tra fotografia e pittura continua nella cornice superiore, dove nuovamente domina il contrasto bianco e nero dell’opera.
I punti che Baldessari ha dipinto, nelle tonalità dei colori primari rosso, giallo, blu e il suo colore predominante arancione, sulle teste delle persone, ne oscurano la vista. Con gli altri due elementi, il notturno a sinistra e il ritratto a destra (pittura e fotografia), quest’opera offre un eccellente esempio di come l’artista utilizza il linguaggio pittorico come modello per esplorare la realtà sottolineando le potenzialità offerte dal mezzo fotografico.
Nelle opere come questa, in cui non è presente la parola, l’immagine ne assume la funzione e si fa veicolo narrativo. In una intervista Baldessari ha dichiarato: “La mia missione … la mia arte credo fosse quella di rompere certi “no-no” e certi “tabù” per le gallerie. Non ho mai visto fotografie nelle gallerie d’arte, erano sempre nelle gallerie fotografiche. Quindi volevo farlo… fotografare come uno strumento che un artista può usare[3]“.
L’opera The Flintstones (1992), una stampa su alluminio, ci porta a Paul McCarthy, un artista che lavora attraverso i media nella performance, nella scultura e nel cinema. Nei suoi lavori il corpo, espressione degradata della società americana, viene manipolato aggredito travestito. La sua dissacratoria produzione artistica nasce da un processo di sconfinamento verso la più totale libertà espressiva e dal continuo desiderio di superare e travolgere i canoni estetici tradizionali[4].  

John Baldessari: Man with Handlebar Moustache/ To Branches (with Black intrusion)1992
Fotografia a colori, fotografia in bianco e nero, fotocopia su Gandhi Ashram, adesivi di carta e pittura acrilica, pastello; smalto ad olio su gomma 210×240 cm Collezione privata Napoli


Quando Edward Kienholz si trasferisce a Los Angeles per guadagnarsi da vivere, fa i lavori più disparati; la povertà di quegli anni si rivela una grande fonte di ispirazione per le sue opere. Invece di acquistare costosi materiali, usa oggetti di recupero e crea innovativi sistemi di installazione ideati per ritrarre i crimini della società americana come scene di violenza, guerra e morte: una sorte di protesi della vita reale. Nei suoi lavori mette il luce il lato oscuro e patologico del modello culturale e sociale americano. In mostra Five Card Stud and the Sandwy Edition, una fotografia serigrafata e retro illuminata, inquadrata attraverso il finestrino di una portiera d’auto: un modo per metterci direttamente di fronte all’atrocità che si consuma sotto il nostro sguardo.
Linda Benglys, contemporanea di Andy Warhol, Sol LeWitt e Barnett Newman, emerge in una comunità artistica prettamente maschile. Oltre ad affrontare il sesso come configurazione sociale e dichiarazione politica, rimette in discussione l’essenza della realtà attraverso stratificazioni di eventi e spazi.
In On screen, la regressione del tempo e dello spazio all’infinito è suggerita dall’immagine di Benglys che fa smorfie davanti ad un monitor, specchiata in un altro monitor dove il gesto si moltiplica.
Raymond Pettibon è noto per i suoi disegni a inchiostro stilizzati che combinano immagini e testo. Le sue narrazioni inventive fondono il contenuto storico con la cultura del consumo per produrre critiche incisive della società contemporanea. Traendo ispirazione da fumetti, cartoni animati e altre iconografie della cultura pop, Pettibon inizia a disegnare copertine di album per la band di suo fratello Black Flag a metà degli anni ’70, utilizzando una linea nera molto marcata che si rifà al punk, mescolando tratto fumettistico e pensieri scritti a mano. Nei suoi lavori è interprete degli incubi americani, nei suoi disegni in nero rappresenta gli eroi negativi della controcultura. L’artista e critico d’arte Robert Storr dice di lui “un’originale versione mitica  di un’America infernale che ha un inquietante fondo di verità”.
Ripercorrendo il percorso espositivo la prima installazione che si incontra è la Nixon Library  di Jeffrey Vallance. Nato nelle  Filippine si trasferisce a Los Angeles, a venti anni, per motivi di  studio. Nelle sue opere combina l’immaginario cattolico con motivi associati all’oppressione razziale e politica, illustrando la contorta psiche della società contemporanea. In questa ricerca, l’indagine si fa sociale e antropologica e sfuma i confini tra creazione di oggetti, installazione, performance, curatela e scrittura. I critici hanno descritto il suo lavoro come un’indefinibile impollinazione incrociata di molte discipline. Subito dopo Cubewave di Jim Isermann, che attraverso il mix con il design e la grafica digitale elimina il confine tra ornamento e struttura architettonica: il cubo, un sistema apparentemente non-comunicativo (archetipo formale della scultura minimalista), diventa un grande gioco per bambini, colorato, tattile e in tessuto cucito a mano.
©Riproduzione riservata 
(1.continua)

Edward Kienhotz: Sandy, Documentation Book for Five Car Stud and the Sawdy Edition 1972
Libro, targa, portiere Collezione Sibilla Gianluca e Lorenzo


NOTE

[1] Da “LE CITTA’ INVISIBILI” di Italo Calvino
[2] Lowbrow, o arte lowbrow, è un movimento di arte visiva underground sorto nell’area di Los Angeles, in California, alla fine degli anni ’60. È un movimento artistico populista con le sue radici culturali nel comix underground, nella musica punk, nella cultura tiki, nei graffiti e nelle culture hot-rod della strada. È anche spesso conosciuto con il nome di surrealismo pop. L’arte lowbrow ha spesso un senso dell’umorismo: a volte l’umorismo è allegro, a volte birichino e a volte è un commento sarcastico. La maggior parte delle opere d’arte sono dipinti, ma ci sono anche giocattoli, arte digitale e sculture.
[3] John Baldessari in un’intervista a Nicole Davis, intervistata nel suo studio a Santa Monica, CA il 12 aprile 2004 e pubblicata su Artnet
[4] Paul McCarthy: il lato oscuro del sogno americano, su Rosanna Fumai blog, 4 ottobre 2010 (http://www.rosannafumai.com/2010/10/04/paul-mccarthy-lato-oscuro-del-sogno-americano/)

Sam Francis Untitled 1964 Acrylic on cavas 52×69 cm
Collezione privata

INFO SULLA MOSTRA
LOS ANGELES (STATE OF MIND)

Dove
Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano
Via Toledo 185
Napoli

Periodo
Fino al 26 settembre 2021.

Orari
Da martedì a venerdì dalle 10:00 alle 19:00 (ultimo ingresso alle 18:30).
Sabato e domenica dalle 10:00 alle 20:00 (ultimo ingresso alle 19:30).
Chiuso il lunedì.

Ingresso
Consigliata la prenotazione online.
Se nel giorno della visita ti verrà rilevata una temperatura superiore a 37,5° non potrai accedere agli spazi museali e ti rimborseremo il prezzo del biglietto.

Biglietti:
– intero: 5,00 €
– ridotto: 3,00 €
– ingresso gratuito per convenzionati, scuole, minori di 18 anni, clienti del Gruppo Intesa Sanpaolo

Informazioni
Modalità di visita in sicurezza.
Per informazioni:
– numero verde: 800.454229
– email: info@palazzozevallos.com

Nella foto in alto, una panoramica del centro di Los Angeles

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