Molto spesso, alle donne sono state negate quelle opportunità che sono state offerte agli uomini. Per questo motivo solo un numero esiguo di esse è riuscito ad emergere nell’arte della pittura e le loro opere sono molto più rare rispetto a quelle dei colleghi contemporanei. Artemisia Gentileschi è una di quelle donne artiste che con la perseveranza ed il talento è riuscita nel suo proposito e ha ottenuto grandi risultati.
«Mostrerò alla Vostra Illustre Signoria ciò che una donna può fare. […] Le opere parleranno da sole». Così la Gentileschi, sicura di sé e giunta già a un punto elevato della sua carriera, scrive al mecenate Don Antonio Rufo, uno dei suoi committenti più affezionati, per convincerlo all’inizio del loro rapporto a fidarsi delle sue capacità.
La riscoperta più recente di Artemisia è spesso legata agli aspetti drammatici e romanzeschi della sua vita e al modo coraggioso con cui li ha affrontati: sono i motivi che l’hanno portata a essere designata come eroina ed icona femminista.
Questa lettura, tuttavia, rischia di offuscare la forza con cui Artemisia si impone come pittrice cimentandosi su generi decisamente lontani da quelli sviluppati da altre donne che, spesso, si sono limitate a riprodurre nature morte, raffigurare paesaggi, specializzarsi nell’arte del ritratto. Per indagare ed esplorare la pittura, Artemisia utilizza soggetti sacri e storici e costruisce impianti monumentali.
Con una totale padronanza della tecnica, abbandona i moduli iconografici convenzionali e trasforma la rappresentazione della scena come suggerisce l’insegnamento caravaggesco: il contrasto che descrive le forme e i colori, la predilezione per un taglio ravvicinato che drammatizza il rapporto con lo spettatore, la raffigurazione che descrive il momento più drammatico di una storia.
Da esperta conoscitrice dell’arte sa di poter esplorare anche toni più lirici e atmosfere più intime. L’estesa varietà dei suoi registri ha una sintonia piena con la vastità del sentire barocco e la sua attività artistica non può essere considerata solo in relazione alle violenze subite: la sua opera esprime una potenza espressiva ed una ricchezza poetica che include il suo dramma ma la porta altrove, oltre la propria vicenda personale.
Nelle sue Giuditte (Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne), in mostra c’è quella proveniente dal Nasjonalmuseet for kunst, arkitektur og design Oslo e quella del Museo e Real Bosco di Capodimonte, il tema del conflitto, sia sotto l’aspetto tematico che figurativo, sia sotto l’aspetto formale che poetico, è ben rappresentato sia dai personaggi che pone in scena, sia dalle ferite che mette in atto.
La storia, riportata nell’Antico Testamento [1], racconta di una bella e ricca vedova ebrea di nome Giuditta [2] che nel VI secolo a. C. salva la città di Betulia dall’assedio di Oloferne generale del re assiro, anche se in realtà babilonese, Nabucodonosor.
Agghindatasi, si reca con l’ancella nel campo nemico, propone ad Oloferne un piano per conquistare Betulia e dopo averlo sedotto e fatto ubriacare lo decapita offrendo la testa ai propri concittadini.
La tela di Capodimonte, appartenuta fino al 1827 ad una collezione privata, fu attribuita da Roberto Longhi alla pittrice nel 1926. La mancanza di certezze documentarie e una datazione sicura ha portato alcuni studiosi, tra cui Raymond Ward Bissel [3], a proporre il padre Orazio come autore dell’opera.
La scelta di rappresentare il momento cruento della decapitazione sembra invece designare Artemisia come l’autrice: il padre ha sempre privilegiato i momenti sospesi e di tensione che seguono al fatto di sangue. Secondo diversi autori la pittrice si è ispirata a Giuditta e Oloferne [4] di Caravaggio, ma la sua raffigurazione ne sottolinea le distanze.
Il quadro di Caravaggio concentra tutta l’emozione sull’uomo: lo sguardo vitreo fa supporre che sia già morto, ma lo spasmo e la tensione dei muscoli inducono a pensare il contrario. Giuditta, invece, sembra adempiere al suo compito con molta riluttanza: le braccia sono tese, come se la donna volesse allontanarsi il più possibile dal corpo di Oloferne, e il suo volto è contratto in un’espressione mista di fatica e orrore.
Accanto a Giuditta Caravaggio inserisce una serva molto vecchia e brutta, un artificio artistico legato alla fisiognomica[5] , atto a sottolineare le differenze tra le due figure che fa risaltare maggiormente la prima, che incarna grandi valori morali.
Artemisia, che con una differente postura dei personaggi arricchisce di significati la scena, cerca di dipingere i pensieri di Giuditta: determinazione, concentrazione e fede nell’assoluta necessità di quel gesto.
I pensieri di Oloferne, ripreso con la testa che sembra fuoriuscire dalla tela verso lo spettatore, con un’angolatura impossibile, mentre esala l’ultimo respiro, sembra indicare la confusione, il terrore, il mondo divenuto incontrollabile. Non c’è una serva vecchia perché non c’è per la Gentileschi una guerra “morale” tra donne.
Il museo napoletano delle Gallerie d’Italia di via Toledo dedica una mostra al lungo soggiorno napoletano di Artemisia Gentileschi, un capitolo fondamentale nell’arte e nella vicenda biografica dell’artista, che vuol essere un approfondimento dell’esposizione monografica dedicata all’artista dalla National Gallery di Londra nel 2020.
Ed è proprio la tela di Santa Caterina d’ Alessandria, dipinta tra il 1615 e il 1617, un autoritratto, acquistato dal museo di Tarfalgar Square, ad aprire la mostra di Napoli.
Artemisia veste i panni dell’indomita regina che nel IV secolo d. C., dopo aver difeso i dogmi cristiani al cospetto di cinquanta filosofi pagani ed essersi rifiutata di rinunciare alla propria fede viene condannata a morte dall’imperatore Massenzio [6] e sottoposta al supplizio della ruota dentata.
Liberata da un intervento divino viene successivamente decapitata. Caterina è raffigurata a mezzo busto con la mano sinistra sulla ruota spezzata, lo strumento con cui è stata torturata diventa un suo tipico attributo nelle rappresentazioni artistiche [7].
La mano destra, accostata al seno, tiene tra le dita una foglia di palma simbolo del martirio mentre la manica arrotolata della sottoveste bianca, che si protrae nello spazio visivo con grinze e pieghe, offre una straordinaria percezione della tridimensionalità. Vestita di abito rosso, manto color ocra e velo diafano, Caterina ha la testa avvolta in un pezzo di stoffa, con l’estremità, ornata di frange, che ricade alle sue spalle; una corona con perle sulle punte ne definisce l’alto rango mentre un’aureola ne qualifica la santità.
Artemisia utilizza spesso la propria immagine nei suoi dipinti assumendo diverse sembianze specie dopo l’arrivo a Firenze quando aveva circa venti anni. Le modelle sono costose e il ricorso allo specchio è più economico ma l’artista ha una consapevolezza: la sua bellezza aggiunge ulteriore fascino alle sue opere.
A pubblicizzare la mostra: San Gennaro e i compagni gettati nell’anfiteatro ammansiscono le belve, una grande tela ordinata dal vescovo Martin de Leon y Cardenas, che resse la diocesi dal 1631 al 1650, per ringraziare il Santo che nel 1631, anno di eruzione del Vesuvio, aveva salvato la città dalla distruzione. Il dipinto rappresenta uno dei tanti miracoli del santo, vescovo di Benevento, martirizzato sotto Diocleziano con i diacono Procolo, Sossio e Festo e i loro seguaci e fa parte di un ciclo commissionato dal vescovo spagnolo per la cattedrale di San Procolo Martire di Pozzuoli ai più noti artisti del tempo; ad Artemisia furono affidate tre tele: San Gennaro nell’anfiteatro, i Santi Procolo e Nicea e l’Adorazione dei Magi.
Condannato a essere sbranato nell’anfiteatro Flavio di Pozzuoli, denominato già allora Carcere di San Gennaro: Artemisia rappresenta il momento cruciale dell’episodio, quando gli animali feroci, due leoni e un orso, si prostrano ai piedi del vescovo mentre stanno per ricevere la benedizione.
Nella composizione San Gennaro, che è posto al centro del dipinto, costituisce il punto focale della scena; ha lo sguardo rivolto verso le belve, il braccio sinistro portato in alto con le dita a mimare il segno della croce, nell’atto di benedire le fiere, mentre con l’altro braccio tiene il pastorale su cui si appoggia. In testa porta la mitra dorata e indossa il piviale damascato sulle spalle; il lungo manto vescovile aperto lascia a vista il camice di lino bianco, una semplice e leggera tunica con plissettature rigide e frastagliate e gli orli delle maniche e del fondo rifiniti da un elegante e raffinato merletto.
Il bianco del camice è spezzato da una lunga stola dorata che termina con una decorazione a frange dipinta con estrema perizia che ha lo stesso colore della catena con l’antica croce gemmata, gioiello appartenente al tesoro della cattedrale o di proprietà dello stesso vescovo di Pozzuoli. La figura di San Gennaro è circondata da martiri e seguaci, resi in maniera meno dettagliata rispetto al protagonista indiscusso della scena. Il soggetto inginocchiato in primo piano, che tiene le mani giunte nell’atto di pregare, visto l’abbigliamento e il rilievo che la pittrice gli attribuisce, è probabilmente il vescovo Festo.
Indossa una dalmatica purpurea[8],che, da come la luce colpisce il tessuto e il panneggio appare di velluto, copre una semplice tunica bianca. Il soggetto alla sinistra del santo, avvolto in un pesante manto marrone, ha lo sguardo fisso sulle belve ma il volto offuscato, mentre le quattro figure appena abbozzate alle spalle del vescovo, tre con lo sguardo in alto, sembrano ricercare un intervento divino, il quarto invece osserva preoccupato i minacciosi animali.
L’orso, con la bocca aperta e in fase di attacco, inibito nel suo istinto resta in piedi su due zampe mentre i due leoni, sebbene abbiano le fauci aperte e le pupille dilatate, restano inermi di fronte al santo; il felino in primo piano si prostra addirittura ai suoi piedi. Il miracolo è ambientato in un anfiteatro Flavio che, sebbene in rovina e posto in secondo piano, funge da essenziale cornice alla scena.
La scelta di raffigurare l’anfiteatro in rovina può dipendere da una specifica richiesta del committente che, con la presenza dei ruderi d’epoca romana, intende sottolineare il trionfo della cristianità sul mondo pagano. Lo sfondo architettonico e il paesaggio sono opere dei collaboratori Viviano Codazzo e Domenico Gargiulo, come hanno riportato Mary D. Garrad [9], nel 1989 e Raymond Ward Bissel [10], nel 1999.
Nell’altra tela I santi Protocolo e Nicea, identificati grazie alla scritta riportata nel dipinto in basso, sono colpiti da una forte luce e portano in mano la palma del martirio. Il nome Procolo deriva da procul che vuol dire lontano. Il nome Proculus è riferito ad un figlio nato mentre il padre era lontano.
Le notizie storiche relative ai diversi Procolo si riferiscono a tempi molto remoti e ovviamente sono molto scarse e in alcuni casi, come per Pozzuoli, vi è più di un Procolo le cui biografie si confondono e si sovrappongono, per cui non vi è quasi mai la certezza di trovarsi di fronte a uno solo o a più personaggi storici.
Secondo alcune fonti a Pozzuoli di santi col nome Procolo ne troviamo due. Il primo è ovviamente il diacono martirizzato insieme a Gennaro, Festo, Desiderio, Acuzio, Eutiche e Sossio, nel corso della persecuzione di Diocleziano, mentre l’altro Procolo, anch’egli diacono, è stato martirizzato insieme alla madre Nicea nell’anno 249 durante la persecuzione decretata dall’imperatore Decio. Nel martirologio Romano viene riportata un’unica data per ricordare il martirio di Procolo e Nicea e del patrono di Pozzuoli per cui si instilla il dubbio che i due martiri possano essere la stessa persona. Se è così si deve stabilire, e non è cosa da poco viste le scarne fonti storiche, se il martirio è avvenuto nel 249 o nel 305.
San Procolo e la madre Nicea sono diventati famosi, proprio grazie al dipinto che dei due ha fatto la pittrice Artemisia Gentileschi. Questo dipinto alimenta altri dubbi: qualora siano due le persone non si capisce perché il vescovo de Léon commissioni alla Gentileschi il dipinto di un martire meno conosciuto del Patrono.
Guardando la tela difronte e in alto, si possono vedere una serie di arcate su pilastri e sul fondo un rudere di tempio antico, con capitelli corinzi e un alto basamento, in ricordo di un tempio dedicato ad Ottaviano. Architettura e paesaggio sono opere dei paesaggisti Viviano Codazzi e Domenico Gargiulo per i quali doveva essere un onore lavorare con la famosa donna cui spettava l’invenzione e la direzione della scena .
Joachim von Sandrart pittore, storico dell’arte e traduttore tedesco a Napoli nel 1631, riferisce che gli artisti napoletani erano ostili agli stranieri, ma trattavano con straordinario rispetto Artemisia. In fondo è proprio nella città partenopea che l’artista raggiunge l’apice del successo e ottiene quella fama che nessuna pittrice donna abbia mai conseguito prima di lei.
La versatilità di Artemisia è conseguenza diretta del suo ingegno, che nella Napoli del Seicento diventa un requisito fondamentale, ma anche della sua forza di volontà che la porta a lottare per affermarsi.
La sua vita, fatta di eventi tragici e tormentati, non può essere ignorata ai fini di una corretta fruizione dell’opera, perché l’artista è solita lasciare sulla tela tracce di sé. Quella superficie bidimensionale che lei riempie magistralmente di colore, sembra contenere due piani di lettura: il racconto della scena effettivamente riprodotta e una storia sottesa, una narrazione parallela che ha come protagonista la stessa Artemisia e il suo confronto con l’episodio ritratto.
In ogni sua opera c’è qualcosa di speciale e allo stesso tempo appassionante, impetuoso e misterioso che rende immortale il suo talento e la sua personalità.
(1.continua)
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NOTE
[1]Il Libro di Giuditta è un testo contenuto nella Bibbia cristiana cattolica ma non accolto nella Bibbia ebraica. Come gli altri libri deuterocanonici è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo
[2] Il nome Giuditta significava “la Giudea”
[3] Raymond Ward Bissel esperto di arte barocca italiana e in particolare per aver studiato approfonditamente la figura e l’opera di Orazio e Artemisia Gentileschi di cui era considerato tra i massimi esperti a livello internazionale.Masters of Italian baroque painting : the Detroit Institute of Arts / Editore : D Giles Ltd (1 maggio 2005)
[4] Dipinta nel 1599 per il banchiere Ottavio Costa attualmente l’opera attualmente fa parte della collezione di opere di palazzo Barberini sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma.
[5] Questo artificio era caro a Leonardo
[6] Molti ritengono che si tratti di un errore di trascrizione e che l’imperatore in questione fosse invece Massimino Daia
[7] Artemisia Gentileschi a Napoli a cura di Antonio Denunzio e Giuseppe Porzio Edizioni Gallerie d’Italia Skira pag.116 pagina curata da Letizia Treves.
[8]La dalmatica era una veste utilizzata in epoca romana e poi rimasta in uso come paramento liturgico consistente in una lunga tunica, provvista di ampie maniche, che arriva all’altezza delle ginocchia. È in genere l’abito dei diaconi.
[9] Mary D. Garrard, Artemisia Gentileschi: The Image of the Female Hero in Italian Baroque, Princeton, New Jersey 1989
[10] Raymond Ward Bissell Artemisia Gentileschi and the authority of art Pennsylvania State University Park, 1999
LA MOSTRA
ARTEMISIA GENTILESCHI A NAPOLI
Gallerie d’Italia – Napoli, museo di Intesa Sanpaolo
Fino al 19 marzo 2023
Mostra a cura di Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio
con la consulenza speciale di Gabriele Finaldi