Mi capita spesso di incontrare, sulla funicolare che va a San Martino, dei turisti. A volte mi domandano la strada per Castel Sant’Elmo, ma non conoscono l’esistenza della Certosa di San Martino. E’ incredibile come si possa, visitando una città, ignorare finanche l’esistenza di uno dei suoi luoghi più affascinanti, creato, nel corso di secoli, da architetti eccellenti, in un posto privilegiato, in alto sulla collina, con una spettacolare vista della città e del mare, ricco di storia e testimone di vita, quella dei certosini che per secoli lo hanno abitato.
Qui sembra di sentirne i sussurri delle preghiere e il frusciare di una bianca tonaca che svolta l’angolo e scompare. Qui vi sono sono chiostri silenti e giardini incantati, antichi pozzi, la pietra che selcia i corridoi, il legno dei cori, le sale severe, le celle raccolte, audaci archeggiature e pavimenti maiolicati consumati nei secoli dai passi di tanti (ce ne è anche uno nuovo con colori sgargianti).
E c’è una bellissima chiesa, colorata di quadri, di intarsi marmorei e di affreschi. E c’è il quarto, cioè l’appartamento, del Priore tappezzato di opere d’arte. Tutto questo è circondato da un’aria voluttuosa nell’ampio spazio incantato. Ma la Certosa, oltre a essere tale, è anche un museo, in cui interessi diversi possono essere appagati. Organizzato in sezioni, presenta quella teatrale, la navale e quelle di stampe e disegni e di immagini e memorie. E c’è la sala delle carrozze e quella dei presepi, tra cui il famoso presepe Cuciniello.
Le sculture abitano i sotterranei della Certosa, ma alcune si possono ammirare anche nelle sale, come un delizioso e colorato San Martino in terracotta. In questi giorni, la sezione Immagini e Memorie è stata arricchita dall’acquisizione di un quadro di notevole grandezza, bellezza e interesse storico, che illustra l’eruzione del Vesuvio del 1631. L’autore ne è Domenico Gargiulo, più noto come Micco Spadaro, soprannome attribuitogli dal mestiere del padre. L’opera, acquisita dal Ministero dei Beni Culturali, è stata affidata al Polo museale della Campania, l’organizzazione statale che amministra ben ventotto musei campani.
La sua direttrice, Anna Imponente, lo ha destinato al museo di San Martino. Sebbene la sua realizzazione sia stata faticosa a causa di una farraginosa burocrazia, è stata una decisione acconcia, direi naturale. Infatti qui già vi sono, dello stesso autore “La rivolta di Masaniello”, “La peste del 1656”, della medesima grandezza e importanza storica e artistica, e due quadri più piccoli, “Punizione dei ladri al tempo di Masaniello” e “L’uccisione di don Giuseppe Carafa”. Interessante sapere che le architetture di questi quadri sono di Viviano Codazzi, un romano napoletanizzato a tal punto da partecipare alla rivolta di Masaniello e che, per questo, dovette fuggire dalla città, per poi ritornarvi quando, per così dire, le acque si erano calmate.
Le architetture de “La rivolta di Masaniello” sono quelle di piazza Mercato e quelle de “La peste” sono della piazza del Mercatello, l’odierna piazza Dante, dove si scorge port’Alba, ancora esistente, e manca, naturalmente, l’emiciclo (oggi della scuola-convitto “Vittorio Emanuele II”), la cui costruzione sarà, nel Settecento, dal re Carlo di Borbone, affidata a Luigi Vanvitelli.
La nuova acquisizione, “L’eruzione del Vesuvio”, presenta, rispetto alle altre opere citate del Gargiulo, una tecnica pittorica più esperta, nella resa dei colori e delle figure. Quindi è stato ipotizzato dai critici che sia opera più tarda rispetto alle altre. Tutti i dipinti citati rappresentano affollate scene di popolo, in cui sono ben definiti e sono resi vivi i singoli componenti. Una rappresentazione certo non fredda ma partecipe del dramma di una città ripresa in circostanze tragiche.
Domenico Gargiulo, quindi, è uno storico, o meglio un cronista, del suo tempo e varie conoscenze sulla vita napoletana dell’epoca da questi suoi quadri si possono ricavare. Fu testimone della rivolta di Masaniello (1647), in cui ritrae i rivoltosi contro quei nobili che sono, d’altronde, i suoi committenti. E descrive con crudo e partecipe realismo la peste del 1656, in cui morirono anche molti suoi amici pittori, come Massimo Stanzione e Bernardo Cavallino. Certo, affermano gli studiosi, il Gargiulo (1612/ 1679) dipinse l’eruzione del Vesuvio del 1631 molti anni dopo. Nel frattempo, lavorò per i certosini di San Martino, affrescandone vari luoghi, come l’atrio della chiesa e il quarto del Priore. La sua presenza è anche un’ampia testimonianza dell’arte napoletana seicentesca. Della quale “L’eruzione del Vesuvio” dà una precisa notazione, anche riguardo agli sviluppi che questa avrà nel secolo seguente. In quest’opera seicentesca si vede lo spirito dell’epoca. E si vede un popolo che soffre, ma spera con una fede che lo unisce e lo rende forte. Una unità e una fede che ora non ci sono più.
Per saperne di più
http://www.polomusealecampania.beniculturali.it/index.php/certosa-e-museo