Fino a domenica 19 marzo il Museo di Intesa San Paolo di Napoli (Gallerie d’Italia), in via Toledo, i ospita la bellissima mostra “Artemisia Gentileschi a Napoli” a cura di Antonio Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio e con la consulenza speciale di Gabriele Finaldi. Carmine Negro ce ne propone il racconto: dopo la prima parte , ecco la seconda tappa del suo viaggio critico/artistico.
… con me … troverà lo spirito di Cesare nell’anima di una donna.”
La parola ha un valore enorme: fornisce significato a ciò che si vive e si prova, aiuta a definire pensieri, azioni ed emozioni, mette in relazione con il mondo. Bisogna rivolgersi ai frammenti sopravvissuti: la testimonianza data al processo per stupro, le comunicazioni private con l’amante, le lettere indirizzate a mecenati e clienti per ascoltare la voce di Artemisia. Si tratta di una “parola” che dà voce ai pensieri, e di una “scrittura” che dà alla parola un senso nel tempo.
Sono passati più di 400 anni eppure la sua voce sembra risuonare vigorosa e vera. Evoca l’immagine di una donna forte e indipendente che, nonostante le discriminazioni di genere dell’epoca, è determinata a conseguire il successo e ad assumere il controllo dei suoi affari personali e professionali. Nelle sue lettere si riesce a cogliere cosa pensa ma soprattutto il modo in cui cerca di difendere se stessa e il proprio lavoro contro i pregiudizi del tempo.
Quando nel 1649 si rivolge all’amatore d’arte di Messina, Antonio Ruffo[1], principe della Scaletta, rivela tutto il suo eccezionale temperamento: Con me il tuo onore non perderai e troverai lo spirito di Cesare nell’anima di una donna, e ancora Il nome di una donna può generare dubbi fino a quando non vedrai la sua opera[2].
Nata a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio e Prudenzia di Ottaviano Montoni, Artemisia Lomi Gentileschi è la primogenita di sei figli. Il padre Orazio Gentileschi, di origine pisana, per il critico Roberto Longhi è stato un pittore che prima di trasferirsi a Roma […] non dipingeva, ma lavorava semplicemente di pratica, a fresco[3].
La sua pittura raggiunge il massimo valore espressivo dopo il trasferimento nell’Urbe: dall’incontro con le innovazioni del Caravaggio trae l’abitudine di adottare modelli reali senza idealizzarli o edulcorarli ma trasfigurandoli in una intensa e realistica drammaticità. Questo il clima culturale ed artistico che si respira in casa Gentileschi ubicata nel cuore del rione Campo Marzio[4], il quartiere dei pittori e degli artigiani. Artemisia da ragazza, trascorre la maggior parte del tempo in casa, perché le strade di Roma sono considerate pericolose[5].
Quando muore la madre, da figlia maggiore, a dodici anni, si fa carico della crescita dei fratelli più piccoli. Artemisia non ha ricevuto un’educazione accademica ed è rimasta analfabeta fino a venti anni.
Nella casa-bottega situata tra la chiesa di Santa Maria del Popolo e piazza di Spagna familiarizza con i colori, gli schizzi e le stampe di cui si serve Orazio ogni giorno[6], sviluppa la curiosità per il lavoro paterno e ambisce ad imitarlo. Grazie alle sue capacità di osservazione e alle indicazioni del padre-maestro, fin da bambina mostra una straordinaria attitudine per l’arte del dipingere.
Sotto la guida di Orazio, la precoce Artemisia impara i segreti del mestiere: macinare i colori, purificare olii, confezionare pennelli e preparare tele, mansioni che metabolizza giovanissima. In tre anni è diventata tanto abile che posso osare dire che non ha pari, scrive il padre, Orazio, nel 1612 alla Granduchessa di Toscana. Subentrata alla madre nella conduzione familiare della casa e la cura dei fratelli minori; ostacolata dal padre ad accedere al patrimonio artistico romano si specializza nella copia di xilografie e stampe di Orazio.
Impara a ritrarsi usando uno specchio; il fatto che i personaggi femminili di Artemisia abbiano le sue fattezze ha condotto a considerare molti dipinti come degli autoritratti. Letizia Treves, tra i curatori della mostra di Londra sull’artista ha un’opinione differente: Non credo sia lei Giuditta né Susanna… semplicemente, il suo modo di dipingere la donna è più naturalistico di quello del padre, lei sa cos’è un corpo femminile, come si comporta il corpo di una donna[7].
Si sa che Caravaggio si reca spesso nello studio di Orazio e anche se Artemisia, in quanto donna, rimane confinata nelle sue stanze, il fascino della sua pittura le arriva filtrato dalle opere del padre e attraverso gli scandali suscitati dal mancato decoro di alcune pale d’altare che provocano grande attenzione ma ugualmente accese polemiche.
Relativamente alle disquisizioni sulla pittura Artemisia è consapevole che all’inizio del XVII secolo, ci sono artisti che adottano il metodo caravaggesco di copiare dal vero che aveva influenzato il padre ed alcuni suoi colleghi e pittori, come i Carracci, che invece intendono riprodurre la realtà attraverso il classicismo di Raffaello. Tali elementi molto forti negli anni giovanili del Gentileschi si erano poi fusi, nell’età adulta, con gli insegnamenti delle tendenze più avanzate della pittura europea e dell’arte del Caravaggio.
È stata questa formazione a rendere Artemisia sensibile agli elementi formali della composizione e all’atmosfera di purezza e decoro. Attorno al 1609 Artemisia da discepola diventa collaboratrice e inizia ad intervenire sulle tele di Orazio, prima di misurarsi, in modo autonomo, in lavori personali dimostrando di aver assimilato gli insegnamenti paterni. La sua prima tela, non presente in mostra, firmata e datata 1610, ha un soggetto biblico Susanna e i vecchioni, attualmente in Baviera nella Collezione Graf von Schönborn Pommersfelden: suggella il suo ingresso nel mondo dell’arte. La storia di Susanna e i vecchioni, frequentemente rappresentata nel XVI e XVII secolo, è tratta dal Libro di Daniele dell’Antico Testamento.
In Babilonia nel VI secolo a.C., due anziani, considerati giudici saggi, si innamorano di una giovane donna molto bella e pia, Susanna, moglie di un certo Ioakìm. Dopo averla seguita per un certo tempo, riescono a introdursi nel suo giardino e a sorprenderla mentre fa il bagno. I due le propongono un patto: può cedere a entrambi o essere denunciata per adulterio; in questo caso sosterranno di averla trovata con un amante, che non sono riusciti a catturare.
La donna rifiuta ed essi l’accusano pubblicamente di adulterio. Portata davanti al tribunale e riconosciuta colpevole è condannata a morte mediante lapidazione. L’intervento del giovane e futuro profeta Daniele è provvidenziale: accusa la gente di esecuzione sommaria, interroga separatamente i due calunniatori, fa emergere con le contraddizioni l’inganno, restituisce alla donna la reputazione e l’onore, condanna i giudici iniqui.
In quest’opera in cui si sente forte la guida paterna, la pittrice accosta il naturalismo di Caravaggio alla suggestione di Annibale Carracci soprattutto nel virtuosismo della posa avvitata di Susanna. Le ombreggiature sottili, operate sul nudo della protagonista, rendono realistiche certe parti del corpo come il ventre e il seno che solitamente sono idealizzate dagli artisti del tempo.
La rappresentazione è essenziale: nella scena mancano le ancelle, il giardino, le vasche o i ruscelli normalmente presenti nell’iconografia classica. Susanna, seduta sul gradino di una “invisibile” vasca, sta per immergersi nell’acqua.
Alle sue spalle un muro compatto su cui si sporgono i due spioni, il primo con il dito sulle labbra le intima il silenzio e il secondo che, mentre tocca confidenzialmente la schiena del complice, gli sussurra qualcosa all’orecchio, rende bene la sensazione di intrappolamento. La composizione dell’immagine, verticale e a forma di piramide, accresce l’effetto di minaccia.
L’espressione del viso di Susanna, rivela angoscia e impotenza: mentre si nega gesticola inorridita perché conosce le conseguenze di tale atto. L’artista incentra la rappresentazione non sullo sguardo che viola l’intimità ma sul ricatto e trasforma la scena in una sinistra violenza psichica.
Questa tela d’esordio è particolarmente importante non solo perché mostra qualità pittoriche ed interpretative non comuni per l’età, ma perché riporta ben segnati autrice e anno di esecuzione[8]. Artemisia con quella data e quella firma sembra voler marcare il suo percorso creativo dove il racconto di com’è fatto, cosa rappresenta e cosa comunica, tipica di ogni opera, indica l’inizio di una rilettura critica della realtà, vista con gli occhi di una donna.
In mostra sono presenti due opere con lo stessa tema Susanna e i vecchi: la prima proviene da una collezione privata di Londra e l’altra, datata 1652, dal Museo della Pinacoteca Nazionale di Bologna. Nell’opera di Londra un magistrale restauro ha restituito dettagli intimi e squisitamente femminili come il cesto con le vesti, lo specchio e in primo piano le calzature turchine impreziosite da nastri dorati. In quella di Bologna, una delle ultime opere della pittrice, con le figure disposte sullo stesso piano e non in modo piramidale, la donna, molto coperta, oppone una più ferma resistenza alle lusinghe e agli inviti a tacere con cui si avvicinano i due libidinosi vegliardi.
Artemisia con la sua Susanna disegna una donna impegnata in una eroica lotta contro forze che sono al di fuori del suo controllo, dove lo sguardo, il corpo, le braccia e le mani comunicano turbamenti profondi ed emozioni sottese.
Le capacità della giovane, motivo d’orgoglio per il padre, spingono Orazio, nel 1611, ad assegnare Artemisia alla guida del pittore e amico Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva con il quale collabora nella realizzazione degli affreschi nel Casino delle Muse di palazzo Rospigliosi a Roma.
Tassi dipinge la cornice architettonica e gli elementi paesaggistici e Gentileschi le numerose figure femminili che appaiono vive, mentre si sporgono dalle loro balaustre: il risultato è un vero incanto che nessuno dei due avrebbe potuto realizzare da solo. Agostino, detto “lo smargiasso” e “l’avventuriero”, ha trascorsi burrascosi e furfanteschi, ma è molto stimato da Orazio che per questo lo accoglie in casa e gli consente di impartire lezioni di prospettiva alla figlia. Non lo avesse mai fatto. Il maestro si trasforma in mostro e nel mese di maggio, il Tassi violenta la ragazza.
La famiglia Gentileschi, superando ogni conformismo, trascina Tassi in tribunale, una mossa troppo ardita per quei tempi. Il tribunale trasforma Artemisia da vittima in accusata, sottoponendola anche ad autentiche torture per accertare la veridicità delle sue affermazioni.
Sappiamo molto della vita e delle opere di Artemisia Gentileschi grazie a questo processo[9] avviato proprio dal padre nel 1612. Negli atti del processo il racconto della giovane e le domande meticolose che le vengono poste seguono un percorso molto preciso: da un lato all’inquirente preme sapere tutti i particolari del fatto denunciato, mettendo a verbale ogni osservazione fatta da Artemisia, dall’altro lato la donna deve dimostrare di essersi opposta al suo aggressore con constans et perpetua voluntas, cercando in tutti i modi di difendere la propria onestà, essendo la visibilità della violenza il riscontro più certo di una sua volontà onesta. Ed è la stessa Artemisia a raccontare … mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi … e dopo ch’ebbe fatto il fatto suo mi si levò di dosso ed io vedendomi libera andai alla volta del tiratoio della tavola e presi un cortello et andai verso Agostino dicendo: “Ti voglio ammazzare con questo cortello che tu m’hai vittuperata”… lo ferii …. Datemi la mano che vi prometto di sposarvi …”. E con questa buona promessa mi racquetai.
La prima volta c’è stata di sicuro violenza, dopodiché Artemisia lusingata dalle promesse di Tassi di sposarla acconsente ad altri rapporti. … E con questa buona promessa mi racquetai e con questa promessa mi ha indotto a consentir dopo amorevolmente più volte alle sue voglie che questa promessa anco me l’ha più volte riconfermata …
Tassi è un ammaliatore, un bugiardo noto e di bell’aspetto: con il suo carisma riesce spesso ad ingannare le donne e la Gentileschi nel 1611 ha solo 18 anni, 15 meno di lui. Artemisia, quindi, crede alle promesse di Agostino e tra i due nasce una relazione di alcuni mesi, fino a quando si scopre che in realtà Tassi è già sposato. Il processo dura da marzo a novembre 1612.
La parola “stupro”, in epoche passate, aveva un significato ampio: oggi per stupro s’intende il solo atto sessuale imposto contro la volontà della vittima mentre con il termine latino stuprum[10] si designava il disonore, la vergogna; l’uso del vocabolo nel contesto giuridico stava ad indicare l’illiceità di determinati atti, dando rilievo al risultato di quei comportamenti, l’onta appunto, non tanto all’atto in sé in quanto lesivo di una situazione soggettiva protetta, nella fattispecie della libera disponibilità del proprio corpo da parte della donna[11].
L’attenzione dell’inquirente era per questo tesa ad accertare se la giovane avesse ceduto in cambio di qualche dono (pecunia corrupta), una domanda a cui Artemisia risponde in modo netto, ribadendo la propria onestà (honestas): … Detto Agostino non m’ha mai donato cosa alcuna perché io non l’ho voluto perché quel che facevo seco lo facevo solo che m’avesse a sposare vedendomi da lui vittuperata …
Si può parlare di un vero e proprio onere di resistenza a carico della vittima che nel corso dell’audizione deve dimostrare di aver adeguatamente resistito, opponendo una resistenza vera ad una violenza altrettanto vera: invocando aiuto, graffiando l’aggressore, usando qualsiasi oggetto per difendersi da questi.
Con la denuncia viene attivato il meccanismo dell’inquisizione, che si svolge secondo un rituale rigidamente prestabilito. Nel caso di Artemisia, due levatrici, Diambra e Caterina, sono incaricate di eseguire una visita ginecologica alla giovane poco dopo l’audizione. Conferito l’incarico, le due ostetriche, si ritirano in una stanza attigua a quella degli interrogatori ed eseguono l’ispezione, confermando quanto affermato dalla donna.
La disputa tra Artemisia Gentileschi ed Agostino Tassi ruota tutta attorno ad una promessa di matrimonio che l’imputato avrebbe fatto alla vittima a maggio del 1611, nel giorno dello stupro, e che, a detta della giovane, sarebbe stata rinnovata più volte. Da questo momento in poi ha luogo il confronto tra le due parti, che assume fin da subito i toni aspri di un vero e proprio scontro verbale, in cui Artemisia ed Agostino rimangono entrambi fermi sulle rispettive posizioni con l’una che afferma ciò che l’altro nega.
In questo vero e proprio duello viene richiesto alla giovane di confermare sotto tortura ed Artemisia accetta: …Signor sì che sono pronta anco a confirmare nelli tormenti il mio essamine et dove bisognarà. L’impiego della tortura nel corso di un confronto ha lo scopo di rendere indelebile una testimonianza. Il tormento dei sibili, con l’uso di cordicelle è usato per i delitti meno gravi: i polsi vengono legati per evitare che la donna si possa divincolare e le cordicelle vengono poste tra le dita delle mani congiunte; successivamente viene azionato un randello che, girando, stringe fino a stritolare le falangi. Ad ogni nuovo giro di vite, le dita si gonfiano e non circola più il sangue: tutto ciò può causare al sottoposto una invalidità permanente.
Il notaio raccoglie ogni sillaba e verbalizza ogni lamento: … È vero, è vero, è vero, è vero …e mostrando un anello … Questo è l’anello che tu mi dai et queste sono le promesse …. È vero, è vero, è vero, tutto quello che dico … Nel caso di Artemisia così come in quelli di altre zitelle, la tortura è finalizzata a lavar via con il dolore l’infamia[12].
La giovane duramente provata sembra esprimere il suo dramma e i segni dell’umiliazione subita attraverso le tinte fosche del quadro che ha come tema Giuditta ed Oloferne dipinto subito dopo il processo. Il 27 novembre Agostino Tasso è condannato a cinque anni di esilio da Roma ma non sconta la pena perché i grandi committenti lo richiamano in città.
Ad ogni modo la soluzione adottata per questo tipo di conflitto poteva essere il matrimonio o una promessa di matrimonio formalizzata, un patteggiamento sancito con una quietanza o ancora il raggiungimento di un accordo su punti controversi dell’iter matrimoniale come l’entità della dote. Per Elisa Ferraretto[13] è assai probabile che ci sia stato anche questo nell’esito del processo ad Agostino Tassi, la condanna al pagamento di una dote a favore di Artemisia, che poco tempo dopo il termine del processo, si sposerà con Pietro Antonio Stiattesi, parente di Giovanni Stiattesi che nel processo fu testimone chiave a favore della giovane.
La dote risarcitoria consente la celebrazione delle nozze, in ossequio ad un rito sociale riparatore, opportuno per la morale dell’epoca. Sia che la querela venisse accolta e l’accusato optasse per il pagamento della dote, sia che detto pagamento costituisse l’oggetto di un accordo tra le parti in causa, in ogni caso la dote costituiva dunque una sorta di monetizzazione dell’onore femminile danneggiato con lo stupro[14].
La fama ed il successo arrivarono presto per Artemisia e diedero la possibilità alla giovane di imparare a scrivere, cosa rara per una donna dell’epoca, e le assicurarono, anche in termini di mercato, un riconoscimento senza precedenti nell’ambito della pittura al femminile. Tuttavia, a riprova di quanto fosse importante la fama di donna onesta nonostante le virtù artistiche, Artemisia, che si definì “un animo di Cesare nell’anima di una donna”, non riuscì mai a liberarsi dalla fama di meretrice licenziosa, dai pettegolezzi e dalla curiosità che la sua vicenda continuò a suscitare anche dopo la sua morte[15].
Dopo il matrimonio con Pierantonio Stiattesi, un pittore di minor valore, celebrato a Roma il 29 settembre si trasferisce a Firenze dove il 21 settembre dell’anno successivo viene battezzato il primogenito Giovanni Battista.
Nella città toscana la pittrice conosce Michelangelo Buonarroti “il giovane”, nipote del celebre artista fiorentino, e, soprattutto, Galileo Galilei. Un incontro che segna anche la sua pittura. In uno dei suoi capolavori, Giuditta che decapita Oloferne, si possono evidenziare i tratti tipici di Caravaggio ma anche l’attenzione per le geometrie e lo studio scientifico di Galileo: nel caso specifico ci si riferisce all’utilizzo della parabola nella costruzione della composizione.
Michelangelo oltre ad inserirla nel cuore pulsante del mondo fiorentino, le procura contatti con possibili mecenati. Nel 1615-16 le commissiona un dipinto per uno dei cassettoni del soffitto dell’abitazione familiare l’Allegoria dell’Inclinazione che rappresenta la predisposizione per un’arte. Il dipinto raffigura una giovane donna sospesa su uno strato di nubi che regge tra le mani una bussola mentre una piccola stella luminosa brilla in fronte al viso delimitato da capelli biondi. Le fattezze della giovane, che ricordano i tratti somatici della pittrice, sono riportate completamente nude quasi a rivendicare la bellezza del proprio corpo e la bravura del suo pennello. Il dipinto deve avere avuto una carica di conturbante sensualità visto che nel 1684 Lionardo Buonarroti, nipote del committente, chiede a Baldassarre Franceschini, detto il Volterrano, l’esecuzione dei drappeggi moralistici per coprirne le nudità.
È lo zio Aurelio Lomi, fratello del padre Orazio, ad introdurre Artemisia nello splendente scenario della corte di Cosimo II de’ Medici, amante dell’arte e della scienza e frequentata da grandi nomi. Nell’ambiente mediceo e del clima culturale della città fiorentina di quel tempo la Gentileschi cerca di assimilare e coniugare ispirazione creativa e conoscenza scientifica. Nel 1616 ottiene un grande riconoscimento: viene ammessa alla prestigiosa Accademia fiorentina del disegno; si tratta della prima donna a essere accettata in un ambiente così chiuso.
La sua vita privata non ha lo stesso successo della sua pittura. Nonostante la Gentileschi e suo marito abbiano avuto ben 4 figli tra il 1613 e il 1617, due maschi e due femmine, Stiattesi non mostra affetto per lei e non si interessa delle questioni finanziarie familiari accumulando solo debiti.
L’amore ha il volto di Francesco Maria Maringhi, un rampollo di un’antica famiglia dell’aristocrazia fiorentina. Un amore travagliato e sofferto che non la abbandonerà mai, come testimoniano le 21 lettere recentemente trovate nell’Archivio dei marchesi Frescobaldi a Firenze. Per il gran disiderio che io ho di vedervi sto quasi quasi per vinire costì con l’occasione del quadro… … Io non mi struggo, se non di non vedervi appresso, che sapete puro che vi aspetto come s’aspetta la grazia di Dio. I testi dalla prosa sono scorretti ma profondi, sgrammaticati ma colti: citano Petrarca, Ariosto, Ovidio, le Rime di Michelangelo e il Tasso, soprattutto trasudano poesia, passione, desiderio.
Alcuni sostengono che è lui il giovane ritratto da Simone Vouet nel quadro conservato al Louvre: si presenta nobile, di bell’aspetto e con i capelli neri leggermente arruffati. Quando si incontrano a Firenze entrambi hanno 24 anni: tra di loro sboccia subito un amore appassionato capace di legarli per tutta la vita e che vede Francesco Maria assumere il ruolo di amante, di intermediario e di confidente, oltre che finanziatore economico dell’artista.
Nelle lettere lei lo chiama Mio carissimo core … e ancora … sapete pure che so vostra sin a che durarò avere fiato. Quando si separa da lui gli lascia un autoritratto e ancora parole dense d’amore Vorrei che pensaste che vollio bene alla vostra anima quanto vollio al corpo e in un‘altra lettera ne reclama la presenza non ci manca che voi.
Intorno agli anni trenta Artemisia dipinge Autoritratto allo specchio con effigie di un cavaliere per alcuni il volto raffigurato è quello dell’amante Francesco Maria che dopo la definitiva uscita di scena del marito è ormai una presenza stabile nella sua vita fino alla morte[16]. La passione di Artemisia non è solo rivolta a Maringhi: comunica con uguale fervore l’urgente restituzione dei suoi averi, la recente morte del figlio Cristofano di quattro anni e mezzo, il valore del suo lavoro con i committenti. Dalle lettere emerge una donna spiritosa e appassionata, determinata a controllare il proprio destino e ottenere il rispetto che merita.
Le difficoltà finanziarie causate dal marito la vedono costretta a chiedere aiuto a Cosimo II, ma la situazione degenera fino al punto che per lei è necessario lasciare Firenze. Nella primavera del 1620 la sua rocambolesca fuga da Firenze, e il ritorno a Roma con il marito che da lì a poco lascia il tetto coniugale e sparisce per sempre dalla sua vita.
L’artista accolta a Roma non è la stessa che era fuggita l’indomani dal processo come giovane apprendista macchiata dallo scandalo ma una professionista seria, protetta dai granduchi di Toscana: una donna ricercata e circondata da amicizie altolocate. In contatto con artisti romani e stranieri, sa promuovere la sua immagine perché è famosa ed incarna la fierezza e la ribellione.
È francese l’artista che attorno al 1625 le dedica un ritratto ispirato da un suo autoritratto non più esistente: si tratta dell’incisione realizzata da Jérôme David. Di passaggio a Roma, raffigura la giovane pittrice, ritratta leggermente di profilo, come una donna severa e composta. A conferirle tali caratteristiche è il sopracciglio destro appena aggrottato e lo sguardo deciso.
I capelli ondulati, lunghi fino al collo, lasciati sciolti consentono ai riccioli di cadere sul volto e addolcirne i lineamenti spigolosi. L’artista la raffigura in molto elegante: indossa un abito arricchito da un raffinato colletto di merletto, un paio di orecchini e una vistosa collana di perle[17]. Le due scritte che compaiono sull’opera attestano che è famosa e con titoli accademici ma soprattutto sottolineano il pensiero di David: un prodigio, tanto abile da essere inimitabile.
È ancora un artista francese Pierre Dumonstier a dedicarle un disegno datato 31 dicembre 1625: questa volta l’omaggio è rivolto alla sua mano. Realizzata con penna e inchiostro su carta, la mano destra della pittrice regge con molta eleganza un pennello[18]. Altra interessante raffigurazione è quella che ritroviamo su una medaglia commemorativa coniata da un anonimo tra il 1615 e il 1630. Alla stregua delle imperatrici romane Artemisia è ritratta di profilo con una collana vistosa e le ciocche ribelli che scendono sulla tempia a personificare una donna impossibile da contenere quanto a fama, talento e ambizioni.[19]
Tra il 1627 e il 1628 soggiorna a Venezia. A ricordare questo periodo c’è la splendida Venere dormiente[20], a ricordare l’incontro con Tiziano e la sua Venere di Urbino, attualmente nella Galleria degli Uffizi di Firenze.
Fulcro della mostra è la parziale ricomposizione del ciclo di tele con Cristo e i dodici apostoli commissionato a Roma per la Certosa di Siviglia da Fernando Afán de Ribera III duca d’Alcalá che nel 1629 diviene viceré di Napoli. Il ciclo ha tra le opere l’effigie di Gesù benedicente i fanciulli, realizzato da Artemisia nel 1626 a Roma. Il dipinto, che richiama i versetti dei Vangeli di Marco e di Matteo, presenta somiglianze compositive con opere coeve di cultura caravaggesca e veicola un’esortazione ad agire con correttezza, fede ed umiltà, rappresenta il primo contatto con Napoli.
Grazie a committenti spagnoli e napoletani la fama artistica precede il suo arrivo nella grande capitale del vicereame. Salvo un breve viaggio in Inghilterra, dal 1630 risiede stabilmente a Napoli dove continua a realizzare opere che la consacrano tra i maggiori interpreti della pittura barocca.
Artemisia ha elaborato uno stile di intensa forza espressiva, e le sue opere intrise di pathos e sensualità arricchiscono ora le collezioni dei più prestigiosi musei internazionali.
(2.continua)
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Nella foto di copertina, ARTEMISIA GENTILESCHI, Autoritratto come allegoria della Pittura, olio su tela, Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica, Palazzo Barberini
NOTE
[1] Artemisia Gentileschi a Napoli a cura di Ernesto Denunzio e Giuseppe Porzio Catalogo della mostra Edizioni Gallerie d’Italia Skira pag. 77
[2] Così si definì Artemisia in una lettera del 1649 a don Antonio Ruffo, suo mecenate. Tiziana Agnati, Artemisia Gentileschi, Giunti, Firenze 2001, p. 6.
[3] Longhi R., Gentileschi padre e figlia (1916), Abscondita, Milano 2011 p. 17
[4] Artemisia nasce in Via di Ripetta, all’angolo con l’Ospedale di San Giacomo. Ed è sempre nel Rione Campo di Marzio che trascorre la propria giovinezza: abita prima nell’odierna Piazza di Spagna, poi si trasferisce con la famiglia in Via Paolina, attuale Via del Babuino, e, in seguito, in Via Margutta, per eccellenza la strada degli artisti.
[5] Ed è il padre a testimoniarlo nel processo.
[6] Christiansen K., Mann J. W. (a cura di), Orazio e Artemisia Gentileschi, Skira, Milano 2001 pagg. 3-37
[7] https://www.pangea.news/artemisia-mostra-londra/
[8] Secondo alcuni storici Artemisia Gentileschi retrodatò il dipinto per motivi personali e legati alla sua vicenda con il pittore Agostino Tassi. Il dipinto in questo caso sarebbe stato realizzato nel 1612 e il personaggio raffigurato sulla destra non poi così vecchio e, nei lineamenti e nei colori, sembra proprio ricondurci al Tassi, l’uomo che aveva abusato di lei. Anche nel suo primo dipinto monumentale Giuditta e Oloferne del Museo di Capodimonte realizzato tra il 1612 e il 1613 la Giuditta viene associata ad un suo autoritratto mentre la testa di Oloferne assomiglia tantissimo ad Agostino Tassi.
[9] Lettere precedute da Atti di un processo per stupro di Artemisia Gentileschi a cura di Eva Menzio. Milano: Abscondita 2004. Da questo volume sono ricavati buona parte delle dichiarazioni di Artemisia riportate.
[10] Il significato filologico del termine stuprum è così ampio da corrispondere ad impudicitia secondo Festo. Marcello Molè, Stuprum, in Novissimo digesto italiano, vol. XVIII, Utet, Torino 1984, pp.582-587
[11] Elisa Ferraretto Il delitto di stuprum tra Cinquecento e Seicento. Il caso di Artemisia Gentileschi Università Ca Foscari Venezia pag. 6
[12] La tortura era finalizzata secondo il codice dell’epoca “ad eruendam veritatem, ad purgandam infamiam”.
[13] Elisa Ferraretto Opera citata pag. 20
[14] Solo nel Regno di Napoli si arriva alla depenalizzazione dello stupro non violento nel 1779, mentre in Toscana il progetto di riforma globale in materia di stupro, aborto e gravidanze illegittime porta alla legge del 1754. La depenalizzazione del reato di stupro semplice si avrà in Toscana nel 1853, con il Codice rimasto in vigore fino al 1889.
[15] Sono datati 1653 due sonetti licenziosi su Artemisia. Eva Menzio, op.cit., p. 147 (vedi nota 9).
[16] Testimone dall’amore di sua moglie per il patrizio fiorentino, è il marito della pittrice, Pierantonio Stiattesi, autore di quattordici lettere indirizzate allo stesso gentiluomo con le quali, da Roma, lo informa minuziosamente della vita coniugale e dei successi di Artemisia. Leale parassita, difensore dell’onore della moglie, e suo compagno affettuoso, Pierantonio non ostacola il sentimento del gentiluomo, anzi lo alimenta magnificando le prodezze della madre dei suoi figli. Deferente verso Francesco Maria, dal quale è stato evidentemente molto aiutato, Stiattesi è compiacente e racconta, in una prosa corretta e ben articolata, ricca di proverbi e massime, le loro avventurose vicende: le liti con il padre e i fratelli, l’attentato al Tassi, la morte del piccolo Cristofano, le visite eccellenti di principi e cardinali che onorano la pittrice, sempre al lavoro per sbarcare il lunario.
[17] Jérôme David la ritrae per esaltarla e ciò è testimoniato dalle due scritte che compaiono sull’opera. Quella incisa sul bordo ovale riporta: Artemisia Gentileschi Romana Famosissima Pittrice Accad. Ancora più ossequiosa quella incisa sotto al ritratto: En Pictura Miraculum Invidendum Facilius Quam Imitandum L’espressione latina significa letteralmente: «Miracolo in pittura / Più facile da invidiare che da imitare».
[18] Anche nell’opera di Dumonstier l’elogio è affidato in parte alle parole: Faict à Rome par Pierre Dumonstier parisien, le dernier de Decemb. 1625 aprèz la digne main de l’excellente et sçavante Artemisie gentil done Romaine. La lunga iscrizione tradotta dal francese recita: «Realizzato a Roma da Pierre Dumonstier parigino, nell’ultimo giorno di dicembre del 1625 / segue la degna mano dell’eccellente e dotta Artemisia gentildonna Romana».
[19] La scritta che segue l’andamento circolare della medaglia recita: «Artemisia Gentilesca Pictrix Celebris». Come nei precedenti omaggi, anche sulla medaglia immancabile è l’allusione alla fama dell’artista.
[20] Il quadro attualmente negli USA fa parte della Collezione Princeton, Piasecka Johnson