Oggi prendiamo “Un caffè con … Stefano Vecchio”, che saluto e ringrazio, con il quale continuiamo il ciclo di incontri per parlare di autonomia differenziata e dei rapporti socio-economici tra Nord e Sud del paese.Stefano Vecchio è direttore del Dipartimento dipendenze della ASL Napoli 1 Centro.

Caro Stefano, è così lontana l’autonomia differenziata da uno psichiatra che tratta categorie disagiate (dipendenze) rispetto al lavoro quotidiano che tu fai per una delle più grandi aziende sanitarie del Sud, come l’ASL Napoli 1?
Lavoro dagli inizi degli anni ’80, per cui ho attraversato le diverse fasi delle politiche istituzionali che riguardano il sistema sanitario nazionale. Nel ’78 fu approvata una legge storica, la 833, che prevedeva la realizzazione di un sistema sanitario universalistico, centrato sulla logica territoriale, che si poneva l’obiettivo epocale di garantire i diritti alla salute a tutti i cittadini, al di fuori di ogni discriminazione sociale. Accoglieva al suo interno la legge 180 che aboliva i manicomi, le rivendicazioni sulla salute delle donne, i movimenti per la tutela della salute dei lavoratori. Cioè i principi ispirati alla logica territoriale dei servizi che oggi viene evocata per rendere l’attuale sistema sanitario più adeguato ad affrontare le emergenze come le pandemie, e nello stesso tempo tutelare e promuovere la salute, prima che curare, dei cittadini in tempi normali. La legge è stata smantellata nel ‘92 con il D.L. n. 502 che ha introdotto il principio della privatizzazione, attraverso criteri larghi di accreditamento e ha subordinato il diritto alla salute alle compatibilità economiche, abolendo di fatto l’universalismo. Successivamente nel 2001 fu approvata la legge costituzionale nota come riforma del titolo V che delegava alle regioni la gestione della sanità.
La combinazione delle due leggi ha permesso che si  realizzassero venti sistemi sanitari, uno per ogni regione e che si facesse ricorso alla privatizzazione attraverso l’accreditamento di interi settori di servizi, spostando l’equilibrio dell’assistenza dal territorio al ricovero, paradossalmente indebolendo il settore delle emergenze, eliminando di fatto la medicina del lavoro e i sistemi epidemiologici, e cioè i settori capaci di intercettare precocemente e analizzare e seguire il corso di una epidemia. E in questo processo i sistemi sanitari meridionali ne sono stati particolarmente colpiti proprio per effetto dei meccanismi che subordinano la sanità alle compatibilità economiche, creando uno squilibrio nella tutela dei diritti alla salute tra i cittadini italiani.
Il sistema dei servizi per le dipendenze, nato negli anni ’80, cenerentola tra i servizi, è stato fortemente influenzato e compromesso da questa storia, per cui oggi ci troviamo di fronte a una estrema differenziazione dei modelli operativi e organizzativi che ostacola anche l’attuazione dei nuovi LEA che inseriscono la Riduzione del Danno nel sistema dei servizi dal 2017, che avrebbe permesso una diversa gestione dell’emergenza nel nostro settore. E per effetto di tale situazione nel corso della pandemia ogni regione ha stabilito i suoi criteri per cui alcune hanno interrotto interi servizi come le unità di strada e l’accesso alle comunità terapeutiche, altre hanno introdotto limitazioni importanti al funzionamento dei Serd, come se i diritti alla salute fossero legati alla residenza nella regione e non alla cittadinanza.
La mia opinione è che oggi si tratta di creare un maggior raccordo tra gli standard nazionali che devono garantire una uniformità su tutto il territorio nazionale delle prestazioni e dei modelli organizzativi dei servizi, lasciando l’autonomia alle regioni di adattare alle esigenze territoriali le indicazioni nazionali. Un regionalismo temperato parte integrante di un sistema nazionale. Differenziare ulteriormente significherebbe non solo allargare le diseguaglianze ma soprattutto rischiare di ridurre i diritti alla salute di tutti gli italiani, in quanto inasprirebbe l’attuale meccanismo che non ha retto all’impatto con la pandemia da sars-cov2.

Foto di Sasin Tipchai da Pixabay 


Il diverso trattamento economico tra Nord e Sud per il finanziamento del Servizio Sanitario Nazionale è certificato da più fonti, innanzitutto dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Negli ultimi 18 anni la spesa per investimenti sanitari (personale, servizi, farmaci, edilizia e arredamenti sanitari, attrezzature scientifiche, macchinari) è stata ripartita più o meno così: 27,4 miliardi al Nord – 11,5 miliardi al Centro e 10,5 miliardi nel Mezzogiorno. Da operatore sanitario territoriale hai avvertito, in tutti questi anni, la differenza sul campo?
Sì, ho avvertito questa differenza, aggravata dalle gestioni straordinarie delle ASL conseguenza di questi fattori, che ha impedito di fatto l’introduzione nelle regioni meridionali di quelle innovazioni necessarie per ampliare strumenti, risorse e nuove tipologie di servizi (come quelli citati di riduzione dei danni e dei rischi) che, anche se  a macchia di leopardo e  con importanti differenze, sono stati realizzati nelle regioni del Nord e Centro Italia. Fa eccezione la ASL NA 1 centro che, nonostante la situazione di svantaggio economico-finanziario, grazie all’impegno degli operatori e agli accordi con le direzioni aziendali, ha sperimentato diverse innovazioni nel campo socio-sanitario. Ricordo le diverse esperienze nel campo socio-sanitario realizzate dall’equipe del Dipartimento socio-sanitario diretto da Mario Petrella, e segnatamente tutto il percorso virtuoso realizzato nell’area delle dipendenze e in generale dei consumi di droghe e sostanze psicoattive legali e illegali che ha portato ad istituire un modello di Dipartimento tra i più innovativi d’Italia.
Il malato del Sud, più ricco e istruito, va a curarsi al Nord perché lì la sanità è più affidabile. Tutto questo è ancora vero dopo il COVID – 19, dove le regioni settentrionali sembrano essere state (e per certi versi ancora lo sono) il problema di tutto il paese? Questo vale anche per gli utenti dei vostri servizi?
Come ho accennato a Napoli siamo riusciti ad attivare un Dipartimento innovativo, organizzato in una logica di sistema che integra diverse tipologie di servizi disegnati per rispondere alle diverse realtà dei consumatori problematici di droghe che noi definiamo modelli di consumo. Oltre ai classici SerD (dieci sul territorio cittadino e uno negli istituti di pena) abbiamo istituito un circuito di Strutture Intermedie: cinque Centri Diurni socio-riabilitativi, dei quali uno nella CC di Poggioreale (Progetto IV Piano) e una Struttura per brevi residenzialità, una Unità di strada con un camper e una Struttura a bassa soglia (drop-in) che contattano e accolgono migranti e senza dimora che usano alcol e droghe, e una équipe che interviene nei contesti del divertimento cittadino (movida, feste, eventi musicali) e che è collegata con un servizio ad hoc, denominato MamCoca, con orari flessibili, per le persone socialmente integrate che hanno problemi con le droghe e richiedono una particolare riservatezza. Questo sistema, in via di continuo riaggiustamento, che realizziamo in integrazione con gli enti del terzo settore, ha il compito di intercettare le problematiche variegate che si manifestano nei diversi contesti della città nei quali si aggregano le persone che usano droghe, per dare risposte differenziate e specifiche. Siamo stati i primi nel meridione ad avere attuato i servizi per la riduzione del danno previsti dai nuovi LEA e tra i primi a livello nazionale ad averli inseriti nel sistema pubblico dipartimentale. Ma, ciononostante, non ci fa piacere constatare la mancanza di un indirizzo nazionale uniforme che assicuri questi standard all’intera popolazione.
Questo sistema di servizi governato da Dipartimento Dipendenze della ASL NA1 centro ci permette di utilizzare in modo razionale e personalizzato il ricorso alle comunità terapeutiche, prevalentemente localizzate nel centro Nord, creando un circuito integrato con quelle meno numerose localizzate nella Campania e nel Sud e di avere con queste una collaborazione significativa.
Grazie a questo modello di collegamenti, prima dell’emergenza Covid-19 riuscivamo a inviare, ad esempio, circa 130 persone ogni sei mesi dal carcere in comunità terapeutica con una misura alternativa alla detenzione. I tossicodipendenti napoletani o che transitano a Napoli (migranti STP) vanno nel Nord solo in forma programmata e non per necessità. Questo dimostra che anche nelle situazioni più difficili è possibile organizzare un sistema efficace di cure che permette ai cittadini napoletani con problemi legati all’uso di droghe o di gioco d’azzardo patologico di poter avere le risposte corrispondenti ai propri bisogni, facendo ricorso al sistema di servizi del proprio territorio.
Ma lo squilibrio impatta sul sistema di welfare locale che presenta forti carenze, dall’accoglienza notturna e negli altri servizi socio-assistenziali, ai programmi di reinserimento sociale e lavorativo. Anche a causa dei tagli  alla spesa sociale, che limita fortemente anche la funzionalità di un sistema di servizi articolato e complesso in quanto contrae le reti sociali e  assistenziali e quindi i percorsi di integrazione sociale.
Come avverti sulla tua pelle questo regionalismo che vorrebbe “spaccare” le aree del paese, questo disallineamento tra Regioni del Nord e del Sud che si vorrebbe introdurre, oltre alle differenze già note?
Come emerge dalle risposte sono convinto che oggi è necessario avere un indirizzo nazionale unitario, bisogna svincolare i diritti alla salute dalle compatibilità economiche, introdurre un meccanismo non solo economico ma anche di sistema di correzione delle diseguaglianze che nello stesso tempo operi la verifica della uniformità della applicazioni dei servizi nei diversi sistemi regionali sanitari. E le diseguaglianze non riguardano solo il Sud ma anche le scelte politiche regionali che hanno prevalentemente privatizzato la sanità in una regione del Nord Italia. In questo senso credo che mantenere un sistema sanitario nazionale declinato ma non differenziato nelle regioni, rappresenti un vantaggio per tutti i cittadini italiani qualunque sia la regione di riferimento. 
Le cosiddette politiche di austerità, imposte anche e principalmente dalla UE, accentuano le disparità territoriali in tema di sanità pubblica, oppure no? 
Le politiche di austerità europee prevedono tagli alla spesa pubblica, considerando il “pubblico” come una spesa disfunzionale di per se e individuando come unico parametro di riferimento quello economico e del privato profit. Il ricatto dell’indebitamento ha distrutto i sistemi sanitari e di welfare di diversi paesi europei. In Italia, anche a causa delle politiche di austerità europee, la spesa sanitaria, come ha dimostrato la fondazione GIMBE, è stata progressivamente e significativamente ridotta nel corso degli anni e le conseguenze sulla funzionalità del sistema si sono viste nella gestione di questa pandemia. Bisognerebbe capovolgere la logica: i sistemi sanitari e di welfare in generale dovrebbero essere tutelati sempre come beni comuni pubblici e orientare i tagli ad altri settori come le spese militari, ad esempio.            
In alto, foto di  Darko Stoianovic da Pixabay            

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