
L’ultima volta che ho visitato la Prima Anticamera o Sala Diplomatica di Palazzo Reale è stato il 24 aprile 2024 in occasione della riapertura che ha seguito il restauro che l’ha riportata all’antico splendore. Rivederla oggi (25 febbraio), con tutte le sovrapporte e l’arazzo con l’Allegoria del Fuoco, allora ancora in manutenzione, impressiona ed emoziona.
Guardando con attenzione si possono cogliere le stratificazioni delle esperienze artistiche e umane che racchiude: di chi ha realizzato queste opere e di chi le ha volute. Un esempio è la volta arricchita dal dipinto di Francesco De Mura che raffigura Il Genio Reale e le Virtù di Carlo di Borbone e Maria Amalia di Sassonia, una rara testimonianza della decorazione settecentesca del Palazzo, un altro è quello degli arazzi che ricordano la prima manifattura istituita a Napoli da Carlo di Borbone, nel 1737, a soli tre anni dal suo ingresso in città.
Con l’istituzione della Real Arazzeria il nuovo re ha inteso di sicuro affermare il prestigio della nuova monarchia e la necessità di soddisfare l’esigenza di decorare gli appartamenti reali, ma ha avuto anche l’opportunità di cogliere un’occasione propizia. Nel 1737 muore senza eredi il granduca Gian Gastone dei Medici: con lui si estingue la dinastia fiorentina e viene soppressa la celebre arazzeria fondata da Cosimo Inel 1545.
Carlo acquista i macchinari e assume parte dei dipendenti, sicché già a novembre dello stesso anno giungono a Napoli quanti hanno lavorato con compiti direttivi nella manifattura fiorentina. La fabbrica napoletana viene installata in un edificio annesso al convento e alla chiesa di San Carlo alle Mortelle. L’anno successivo giungono altri nove arazzieri medicei, cui vengono affiancati apprendisti napoletani, e così già nel giugno del 1739 risulta in lavorazione l’arazzo con il Ritratto di Carlo di Borbone, ora a Capodimonte.
In alcuni momenti cogliere l’occasione vuol dire riportare a nuova vita ciò che è stato immaginato e prodotto dall’ingegno umano e che rischia di scomparire per sempre.


La sala è piena e si fa fatica a trovare un posto a sedere; anche la scaletta di chi è stato invitato a intervenire è folta: la conferenza stampa è introdotta e coordinata dal giornalista e critico musicale Federico Vacalebre.
La prima a prendere la parola è Paola Ricciardi, direttrice delegata di Palazzo Reale, che ricorda come il 6 gennaio 2015 centomila persone si sono radunate in una manifestazione di amore, spontanea e struggente a Piazza Plebiscito per rendere omaggio a Pino Daniele a due giorni dalla sua scomparsa. Palazzo Reale, da quattrocento anni testimone muto ma non indifferente delle vicende della città, a dieci anni di distanza da quel 2015, diventa sede di una mostra che è racconto, memoria, tributo prezioso a chi quella città, forse più di chiunque altro in questi nostri anni, l’ha saputa capire e far capire, con tutte le sue complessità e contraddizioni.
Per Massimo Osanna, direttore generale dei Musei del Ministero della Cultura, negli ultimi anni i musei italiani, con una visione più ampia e inclusiva, hanno aperto il patrimonio culturale a linguaggi molteplici producendo uno strumento di narrazione e arricchimento per tutti i visitatori.
Ne è un esempio la recente inaugurazione a Palazzo Reale del Museo Enrico Caruso, nel 150° anniversario della nascita del celebre tenore, che ha restituito alla città un luogo che ne racconta la storia artistica e personale.
La mostra, dedicata a Pino Daniele (20 marzo – 6 luglio), promossa dal Ministero della Cultura, si sviluppa in due spazi del Palazzo: la Sala Plebiscito e la Sala Belvedere, con la prima recentemente restaurata e aperta al pubblico per la prima volta in occasione di questa esposizione, si inserisce perfettamente in un più ampio percorso di trasformazione del concetto di museo.
Per realizzare l’obiettivo di rendere i luoghi della cultura accessibili a pubblici sempre più eterogenei e rispondere alle esigenze di una società in continua evoluzione, si sta dedicando sempre più attenzione alla fruizione cognitiva e sensoriale. Questa mostra, che intreccia musica e arte visiva, amplia l’esperienza culturale e coinvolge il visitatore su più livelli. Come tutte le arti che tradizionalmente abitano i musei, la musica ha un intenso potenziale narrativo e Pino Daniele, cantando la lingua di Napoli, l’ha trasformata nella lingua del mondo, mescolando il blues con le radici mediterranee, la musica nera con l’anima più autentica della sua terra.
Per il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi Pino Daniele non ha solo cantato Napoli, di cui ha restituito la vera essenza e la radice più autentica, ma ha dato voce alle emozioni più intime dell’animo umano rendendole poesia con i suoi versi, le sue melodie e le sue note. Ha fatto così nascere uno stile musicale incentrato su sperimentazioni, contaminazioni sonore, tradizione e innovazione insieme, moti di ribellione e percorsi romantici, dando vita ad una produzione artistica di immenso valore che è parte del patrimonio musicale italiano e internazionale.

La Regione Campania, per il presidente Vincenzo De Luca, ha inteso sostenere con convinzione l’allestimento di questa mostra perché con le sue opere l’artista ha fatto emergere attraverso la relazione tra l’uomo, la musica e il tessuto sociale stratificato, le infinite anime creative ed espressive della città.
Pino Daniele ha avvertito le vibrazioni della lingua madre, delle terre, del mare e le ha riportate su uno spartito nuovo. Ha percepito e invocato il blues come il ritmo di ogni Sud del mondo, contaminandolo e ricreandolo con passione assoluta. Ha interpretato la mutevolezza della musica, che è stata la vita, in un periodo di cambiamenti, di stagioni forti, di contraddizioni e paradossi rappresentando in modo originale la Cultura Mediterranea che si presenta da sempre poliedrica e multiforme.
Alessandro Nicosia, curatore e organizzatore della mostra riporta una frase di Pino Daniele: La musica aiuta a vivere. Sono parole che racchiudono la sua convinzione che la musica è capace di dare forza nei momenti difficili e di unire le persone al di là di ogni barriera. Per lui, la musica non è soltanto un’arte, ma un linguaggio universale in grado di raccontare le gioie, le sofferenze e le speranze di intere generazioni. Con ogni nota e ogni parola, egli trasmette un messaggio di resilienza e di amore per la vita, invitando chi l’ascolta a ritrovare in essa il coraggio di andare avanti.
Il figlio Alessandro Daniele, altro curatore della mostra, ricorda che per il padre, che non amava mettersi in vetrina, contava l’oggi: un presente che ha uno sguardo rivolto al futuro. Crede nella forza della condivisione e nel valore dei legami umani, anche se spesso si chiude in una dimensione spirituale o di solitudine nella quale intende ritrovarsi, insieme agli altri, per rafforzare il concetto di comunità.
La Fondazione, che porta il suo nome e celebra il suo percorso artistico ed umano, non intende fermarsi nel ricordo, ma vuole trasformarlo in un ponte verso il futuro … attraverso una staffetta multigenerazionale. Ricorda poi che il titolo Spiritual, in particolare la grafia che si vede sui manifesti, è quella originale di Wayne Shorter. Era il 1982 papà e Shorter stavano registrando Maggio se ne va’ per Bella ‘mbriana’ quando Wayne scrisse su un foglio Spiritual a indicare la profondità artistica e umana di Pino. Mio padre era spirituale nell’attitudine a dare un significato profondo a tutte le sue azioni.
C’è chi vede Pino Daniele come un moltiplicatore di sogni. Ogni essere umano possiede un sogno, ma non riesce ad esprimerlo né con le parole né con le note. Al suo pubblico Pino Daniele non chiede di analizzare il sogno, ma di collaborare al sogno. Illuminate dal genio del grande musicista napoletano, le persone scoprono in sé organi segreti che non pensavano di possedere: una dinamica del creare che non spiega niente all’anima, perché il suo unico scopo è ingrandirla (Ruggero Cappuccio direttore Fondazione Campania dei Festival).
Quelle riportate sono alcune delle considerazioni che sono state presentate sia attraverso la parola sia attraverso i contributi scritti da quanti sono intervenuti.
La mostra è suddivisa in due parti e in nove aree tematiche. La prima parte ripercorre la storia di Pino Daniele dal 1955 al 1977, anno di pubblicazione del suo primo album, mentre la seconda parte, riporta la sua vita e la sua carriera dal 1977 al 2014 attraverso un percorso cronologico che intreccia la sua evoluzione musicale e personale con un focus sugli incontri, sulle collaborazioni e sulle produzioni musicali.
Nel saluto della Fondazione Pino Daniele si legge che attraverso la mostra, la sua storia viene raccontata attraverso un ricco mosaico di contenuti audiovisivi, pubblici e privati, materiali d’autore e amatoriali, documenti inediti, oggetti personali e strumenti che lo hanno accompagnato nel suo percorso creativo.
L’esposizione, che contribuisce a delineare il ritratto di un artista e di un uomo, la cui eredità va ben oltre la musica, di sicuro può consentire di conoscere aspetti poco noti o del tutto nuovi dell’artista, ma se non è accompagnata da altri momenti può risolversi in una musealizzazione della sua storia e in una sterilizzazione delle radici. La memoria è organo del futuro, a patto che le radici rimangano vive e vegete, a patto che si abbia il coraggio di trasmettere questo patrimonio di valori e di esperienze ai giovani con il compito di portarle avanti.
Ci sono altre considerazioni che sono emerse in questo incontro a colpirmi: la sua arte ha sempre dialogato con Napoli, una città che è al tempo stesso radice e orizzonte, specchio di un’identità complessa e universale. Pino è stato espressione vivente di questa città-mondo, intrecciando la tradizione partenopea con i linguaggi contemporanei, dando voce a un patrimonio culturale che attraversa i secoli e i confini. La sua Napoli non è una cartolina, ma un cuore pulsante di contraddizioni e bellezza, dove la storia incontra la modernità e l’arte diventa strumento di consapevolezza e trasformazione (Fondazione Pino Daniele).
E ancora … Guardiamo indietro non per nostalgia, ma per innovare, per dare un senso al presente e tracciare nuove strade, proprio come ha fatto lui con la sua musica (Alessandro Daniele).
È capace di trasportarci, attraverso la musica e le parole, in un luogo che è mondo, in cui ognuno si può perdere e poi ritrovare, a prescindere dalle proprie differenze e appartenenze (Paola Ricciardi).
Un cantante può consentire ad una comunità di sentirsi una grande famiglia … il Pino Daniele della città multiculturale del Mediterraneo … della contaminazione … degli esperimenti con alcuni richiami alla cultura musicale della fascia nordafricana (Vincenzo De Luca).
Nella nostra società si constata la progressiva percezione di vivere un quotidiano inquietante, che origina incertezza e genera paura: si tratta di un quadro problematico riconducibile alla perdita dei riferimenti morali sul piano della società civile, all’incertezza dello scenario prossimo venturo, all’imprevedibilità crescente dei comportamenti individuali. Le relazioni sembrano sempre più improntate ai rapporti di forza che alla ricerca di comporre in una sintesi bisogni ed esigenze differenti. Sembra sempre più difficile costruire un nuovo modo di stare insieme. È come se gli strumenti elettronici che abitualmente utilizziamo si fossero impossessati della volontà delle persone con un programma rigido, che risponde unicamente ai propri bisogni, e l’iniezione del siero del sì e del no (0/1) che non prevede il compromesso.
Se è vero che un cantante può consentire ad una comunità di sentirsi una grande famiglia, Pino Daniele, per il quale La musica esprime socialità, può essere considerato un eccezionale testimone.
Si può immaginare per Napoli, situata al centro del Mediterraneo, che con le sue canzoni non ha mai smesso di descrivere le emozioni della città e rappresentare stati d’animo universali, un Festival Internazionale dove ospitare e far esibire le culture musicali di tutti i paesi Mediterranei, nel nome di Pino.
Nell’ultima intervista su Repubblica del 14 dicembre 2014 afferma Il mio verso più bello? Devo ancora scriverlo.
Nel 2004 a Verona, quindici anni prima della sua scomparsa avvenuta a Roma il 4 gennaio del 2015, mentre si trova nell’atelier di un liutaio e parla della musica come linguaggio, afferma Noi andremo via, il tempo resterà, noi non siamo nulla. Così anche la musica. Perché è la musica che resta. Se la musica resta il verso più bello è quello che viene scritto dopo … che appartiene in qualche modo anche a quelli di prima.
La mostra Pino Daniele. Spiritual celebra non solo l’artista, ma l’uomo che ha saputo dare un senso autentico e universale alla propria arte. Un viaggio tra memoria e presente che può avere il suo futuro in questo incontro tra esperienze musicali di persone che condividono l’esperienza umana e lo stesso mare: il Mediterraneo. E lo possono fare attraverso la sua musica: un battito di ali nel silenzio della vita, capace di illuminare il nostro sguardo sul mondo.
In alcuni momenti cogliere l’occasione vuol dire riportare a nuova vita ciò che è stato immaginato e prodotto dall’ingegno umano e che rischia di scomparire per sempre.
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Le foto in pagina del progetto espositivo e di Pino Daniele sono state fornite dall’ufficio stampa di Palazzo reale dove la mostra verrà esposta fino al 6 luglio. Lo scatto che ritrae l’attrice Mariangela D’Abbraccio e la cantautrice chitarrista Alessandra Tumolillo nella performance dedicata all’iniziativa è di Carmine Negro