Venerdì 1 marzo, negli spazi di Palazzo Ricca, storica sede della Fondazione Banco di Napoli, nel cuore antico della città, in via dei Tribunali, viene mostrato alla stampa La presa di Cristo, il capolavoro sconosciuto di Caravaggio.
Si prova sempre una grande emozione, dopo aver percorso il decumano maggiore, giungere nel cortile rettangolare di questo maestoso palazzo cinquecentesco nei pressi di Castel Capuano che vanta la presenza delle scale a rampe disgiunte realizzate da Ferdinando Sanfelice[1], un architetto che nella Napoli del Settecento ha saputo infrangere i limiti tradizionali della concezione dello spazio.
Il palazzo Ricca è stato acquistato dal Sacro Monte e Banco dei Poveri nel secondo decennio del Seicento ed ampliato nel corso del XVII e del XVIII secolo con strutture limitrofe come Palazzo Cuomo[2]. Con decreto del 20 novembre 1819, viene destinato da Ferdinando I di Borbone ad archivio delle scritture dei banchi napoletani d’età moderna. Si tratta del più grande Archivio storico bancario del mondo e i numeri certificano l’imponenza di ciò che vi è custodito: scritture dal 1539, 14mila metri quadri, 80 chilometri di carte, 17 milioni di nomi, 450 anni di Storia e di storie. L’Archivio è custodito in 330 stanze del Palazzo, colme di antichi faldoni, che raccontano, attraverso dettagliate causali di pagamento registrate dagli antichi banchi pubblici, la storia di Napoli e del meridione d’Italia[3].
L’Archivio Storico del Banco di Napoli, attualmente di proprietà della Fondazione, ricorda quel simbolo del Sud e potente motore dell’economia meridionale che era il Banco di Napoli. La latitanza delle istituzioni politiche e la gestione negligente di alcuni dirigenti hanno incentivato la crisi che l’istituto di credito ha attraversato nel decennio che va dal 1991 al 2002 che l’ha portato alla fine ad essere incorporato nella Banca Intesa San Paolo.
Si resta sbigottiti nel rilevare che il nuovo proprietario non abbia sentito il bisogno di creare nessuno spazio decisionale nella città che ha creato l’istituto finanziario che ha portato in dote non solo risorse economiche (risorse materiali), ma una parte della grande storia e della cultura del Mediterraneo (risorse immateriali). E si sa che le risorse immateriali da sempre sono il motore di quelle materiali.
Oggi la Fondazione Banco di Napoli, che non ha più rapporti di proprietà con l’Istituto finanziario e persegue fini di interesse sociale e di promozione dello sviluppo economico e culturale, presenta nelle sue sale l’opera di Caravaggio.
Caravaggio, pseudonimo di Michelangelo Merisi, personaggio esuberante e pieno d’eccessi, rivoluziona la pittura occupandosi del vero e non del bello. In verità, egli fu per molti aspetti il primo artista moderno. Il primo a non procedere per evoluzione, ma per rivoluzione[4] così scrive di lui Roger Eliot Fry. La sua arte si immerge nella realtà e la dipinge. Raffigura soggetti e racconta fatti religiosi come nessuno mai aveva osato fare. Per Andrew Graham-Dixon[5] la sua straordinaria capacità di esprimere il dramma dell’uomo attraverso la pittura riflette, come in pochi altri casi nella storia dell’arte, la sua esistenza reale, fatta di lampi nella più buia delle notti–
La grande innovazione portata dal Merisi nella pittura fu la rappresentazione della luce e dei suoi effetti. Le figure escono dall’oscurità ed hanno le loro fattezze esaltate dal chiaroscuro e dai forti contrasti di luce; gli ambienti e i personaggi sono quelli del popolo nel loro crudo e, a tratti, aspro realismo.
La sua vita, fatta da sempre di duelli, fughe, improvvise ascese e rovinose cadute e oberata infine dalla propria morte imminente, trasforma le sue narrazioni pittoriche, che diventano sempre più drammatiche, essenziali, poetiche.
Come i poeti utilizzano poche parole preziose per raccontare storie ed emozioni nei loro versi così all’artista bastano pochi elementi corporei per raccontare le vicende umane nelle sue tele. Il corpo chiamato a comunicare diventa l’unico componente della narrazione perché è la narrazione stessa e può aiutare a riflettere sul senso e il destino dell’esistenza umana.
Luce, innovazione, genio e arte caratterizzano l’opera di Caravaggio che con la sua tecnica innovativa ha superato le epoche e i generi riuscendo ad influenzare nel ‘900 fotografi e cineasti. Roberto Longhi, importante storico dell’arte e uno dei principali scrittori del Novecento, lo ha definito come l’ultimo pittore del Rinascimento, ma il primo dell’età moderna. Il regista Mel Gibson nel film La Passione di Cristo (2004) ha rivelato di essersi ispirato a questo dipinto per la scena dell’arresto utilizzando nella fotografia una simile prospettiva, illuminazione e disposizione delle figure.
Riconosciuto universalmente come uno dei pittori italiani più celebri di tutti i tempi, nel mondo esistono non più di ottanta dipinti attribuiti a Caravaggio. Per questo motivo il ritrovamento di una sua tela, le cui tracce si erano perse nel tempo, è stato vissuto come un evento straordinario. Proprio attorno a questo ritrovamento ruota un avvincente saggio dello scrittore statunitense Jonathan Harr[6].
I protagonisti del racconto di Harr sono: un illustre storico dell’arte, l’inglese sir Denis Mahon, grande esperto di pittura barocca europea, una giovane studiosa romana, Francesca Cappelletti, e il restauratore della
Nel 1952 Mahon viene a Roma per studiare il San Giovanni Battista di Caravaggio conservato nella collezione dei Doria Pamphilj e la copia dello stesso conservata nei Musei Capitolini. Alla fine delle sue ricerche emette un verdetto clamoroso: per lo studioso le attribuzioni vanno ribaltate, il quadro originale è quello dei Musei Capitolini, mentre la copia è quella conservata in Casa Doria Pamphilj.
Per dirimere la questione viene istituito un gruppo di lavoro con le studiose Francesca Cappelletti e Laura Testa che passano al setaccio gli archivi romani alla ricerca di qualche notizia sui due dipinti. I dati che emergono dalla consultazione dell’Archivio Pamphilj avvalorano l’intuizione di Denis Mahon e confermano che il quadro di quella collezione risulta essere una copia di Caravaggio realizzata da Jusepe de Ribera e comprata come tale da Camillo Doria Pamphilj nel 1666.
Per verificare l’autenticità della versione conservata nei Musei Capitolini, le due studiose partono dagli scritti che associano il dipinto al collezionista romano Ciriaco Mattei e decidono di verificare l’archivio della famiglia Mattei che intanto non è più a Roma ma a Recanati perché confluito in quello della casata Antici Mattei, la famiglia della madre di Leopardi.
La consultazione consente a Francesca Cappelletti e Laura Testa di trovare i pagamenti del San Giovanni Battista Capitolino a Caravaggio nel gennaio del 1603 e in più trovano un dato inatteso: il pagamento a Caravaggio della Presa di Cristo, un quadro con Gesù circondato da soldati e baciato da Giuda noto perché riprodotto attraverso antiche copie.
Gli inventari di Casa Mattei riportano la presenza di due versioni di questo quadro la prima con cornice nera rabescata d’oro passa nel 1624 al marchese Asdrubale Mattei dopo la morte del fratello Ciriaco e rimane in quella collezione fino alla sua morte nel 1638.
Ricompare nel 1688 a Napoli nell’inventario della collezione Vandeneynden, famiglia di mercanti fiamminghi che nel 1653 acquista un palazzo a via Toledo e per successione passa nella Collezione Colonna di Stigliano. Nel 1830 la principessa Cecilia Ruffo vende palazzo Zevallos Stigliano di via Toledo probabilmente con le opere in esso conservate e quindi anche con il quadro di Caravaggio. Ricompare nella collezione Ruffo, principi di Scilla, una delle più importanti casate del regno di Napoli dai cui discendenti fu venduto.
Nel 2003 è Anna Maria Ruffo a cedere la tela all’antiquario romano Mario Bigetti suo attuale proprietario[7]. Il dipinto, sporco con estese ridipinture e alterazioni della vernice che lo rendevano poco leggibile, venne riconosciuto[8] nel 1943 da Roberto Longhi ed esposto nel 1951, come la miglior copia del perduto originale, nella Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi tenuta a Palazzo Reale di Milano.
A seguito della pulitura e del restauro eseguito tra il 2003 e il 2004, che ha fatto emergere la pittura originale, studiosi, collezionisti e mercanti hanno attestato sull’autografia dell’opera confermata successivamente dalle indagini diagnostiche che hanno rilevato la presenza di radicali variazioni in corpo d’opera e pentimenti che confermano anche che è stata la prima ad essere realizzata dal Caravaggio.
I Mattei devono aver commissionato una seconda copia del quadro ambientato nell’Orto degli Ulivi riportata in archivio con cornice dorata: di dimensione più piccola ed utilizzata come sovrapporta. Alla morte di Ciriaco Mattei nel 1614 la collezione passa al figlio Giovanni Battista e alla morte di quest’ultimo, nel1624, il quadro è lasciato in eredità al cugino monsignore Paolo, figlio di Asdrubale: resta comunque nella collezione.
Nel 1793, gli inventari cominciano a mutare e tutti i quadri, tra cui anche la Cattura di Cristo, subiscono cambiamenti nei titoli, nei nomi degli autori e talvolta anche nelle misure. Questo quadro di Caravaggio viene registrato come opera di Gerrit van Hontorst detto anche Gherardo delle Notti e assegnata una forma quadrata e non più rettangolare.
Per le difficoltà economiche la famiglia Mattei è in declino e c’è la possibilità che anche l’addetto agli inventari fosse poco competente. Si può anche immaginare che, data la disastrosa condizione economica della famiglia, si sia voluto volontariamente cambiare il nome ai dipinti e renderli più desiderabili per i compratori. Gherardo delle Notti è un artista molto famoso in quegli anni mentre Caravaggio, ormai dimenticato, è quasi uno sconosciuto.
Nonostante il divieto di esportare fuori da Roma le opere d’arte, sancito già nel 1685 da Innocenzo XI e rinnovato dai papi successivi, sotto Giuseppe Mattei avvennero le prime cessioni di opere della collezione. Per far fronte ai debiti viene venduto questo dipinto insieme ad altri cinque quadri della raccolta al collezionista scozzese William Hamilton Nisbet che lo compra pensando che si trattasse di un originale di Gherardo delle Notti e lo porta a Biel House residenza degli Hamilton in Scozia.
Mary Georgina Costance Nisbet Hamilton Ogilvy, ultima erede diretta di William Hamilton Nisbet nel 1921 lo dona insieme ad altri ventotto dipinti alla National Gallery of Scotland, ma la galleria scozzese non prende tutti i dipinti, tra cui la Cattura di Cristo. Così nel 1921 viene messo all’asta da Dowell’s a Edimburgo e acquistato dal collezionista John Kempt per solo 8 ghinee[9]. Successivamente è stata la dottoressa irlandese Mary Lea-Wilson ad acquistare il dipinto per farne dono a padre Finley del Collegio dei Gesuiti di Sant’Ignazio a Dublino: un regalo per il grande aiuto che le aveva dato dopo la morte del marito. Nel 1990 Sergio Benedetti, l’esperto italiano responsabile dei restauri alla Galleria Nazionale d’Irlanda riconosce in questa residenza religiosa il quadro come autografo di Caravaggio, attestazione confermata da molti studiosi.
Subito dopo il ritrovamento Benedetti esegue l’analisi e il restauro dell’opera, fortemente danneggiata e annerita dalle vernici. Nel 1993 viene ufficialmente dichiarato che è stata ritrovata la magnifica Cattura di Cristo di Caravaggio, da allora in deposito alla National Gallery of Ireland.
Per Francesco Petrucci curatore della mostra insieme a don Gianni Citro La presa di Cristo esposta nelle sale di Palazzo Ricca è il più importante ritrovamento dell’opera di Caravaggio degli ultimi decenni per la complessità della composizione e per i contenuti spirituali che esprime. Caravaggio è un pittore concettuale e quello che gli interessa sono soprattutto i contenuti espressivi. Il quadro, che ritorna a Napoli, dove, nella collezione Colonna di Stigliano, era presumibilmente rimasto fino al 1830 circa, è la prima versione della Presa di Cristo, seguita, poi, dalla replica di Dublino, che non ha la stessa potenza espressiva, è molto più piccola e non ha la cornice
nera rabescata d’oro, che aveva il prototipo.Nel 1601 Caravaggio lascia la residenza del cardinale Del Monte per raggiungere il nuovissimo Palazzo Mattei dove vive il cardinale Girolamo Mattei insieme ai suoi fratelli, Asdrubale e Ciriaco. Vi trascorre solo due anni, ma questo cambio sia di luogo che di protettore segna un’evoluzione nel suo modo di dipingere. Abbandona i temi mitologici cari a Del Monte, sceglie una narrazione religiosa capace di soddisfare le richieste delle grandi commissioni pubbliche e modifica l’atmosfera dei suoi dipinti che diventano più monumentali e più raffinati. Nella pittura La Cattura di Cristo la narrazione è concentrata principalmente sulle espressioni facciali e sui gesti dei personaggi più che sui costumi o sul contesto che addirittura sembra scomparire.
Le due parti che compongono il dipinto, quella di sinistra in cui si svolge l’azione, dinamica e colorata, e quella di destra, statica e quasi monocromatica, sono collegate dalla figura dell’armigero e dal cuneo costruito dal suo gomito.
Caravaggio descrive il concitato arresto di Gesù nel Giardino degli Ulivi e sceglie di raffigurare il dramma dell’evento fermando quell’attimo. Tre soldati in armatura, di cui uno quasi interamente nascosto dietro l’uomo con la lanterna, afferrano Cristo mentre Giuda si avvicina con le sue labbra per porgere il bacio del tradimento e dare il segnale convenuto.
Giuda, dipinto con occhi vuoti e scuri e le sopracciglia aggrottate, non guarda in faccia il Cristo; il suo sguardo perso nel vuoto sembra far presagire una sorta di pentimento. La sua mano sinistra, che, in corrispondenza della nocca dell’indice, porta un segno assimilabile a un sigillo d’infamia, afferra con impeto il braccio di Gesù, che, all’opposto di tutti gli altri personaggi raffigurati, rimane immobile: un punto fermo nella grande agitazione. Con il volto illuminato e gli occhi bassi mostra un’espressione dimessa e sostanzialmente impotente. Le sue mani strette in un intreccio[10] e con i palmi rivolti verso il basso, che nella gestualità medioevale indicano rassegnazione, sono il segno della tristezza interiore che il contesto gli sta procurando, ma esprimono anche l’accettazione di quella sofferenza.
Alle spalle di Gesù c’è un giovane che cerca di scappare, visibilmente terrorizzato identificato con Giovanni, il discepolo più giovane e più amato, così vicino e intimo che sulla tela non si riesce quasi a distinguere la linea che divide le due capigliature. La sua mano che esce dal quadro ci consente di immaginare il proseguimento dello spazio al di là della dimensione reale del dipinto.
Ha la bocca aperta, le braccia alzate e gli occhi spalancati: è immobilizzato nell’istante in cui grida sopraffatto dalla paura e dal dolore, quasi un presagio della passione che seguirà alla cattura. La sua ricerca di proiettarsi fuori dalla scena e sottrarsi al dramma che si sta consumando contrasta con la postura ferma di Cristo mentre la figurazione del suo grido, che sembra fuoriuscire dalla trama della tela, mette in risalto il silenzio del Maestro. Una parte della tunica del giovane, afferrata da una delle guardie, disegna un arco che racchiude i tre protagonisti della scena i cui volti lasciano trasparire i loro stati d’animo caratterizzati da paura, rassegnazione e pentimento.
Una settima figura, rappresentata sulla destra del quadro, completa la scena: l’autoritratto di Caravaggio. Nelle sue opere utilizza spesso questo espediente per rendere la narrazione più personale e allo stesso tempo più universale. In questa occasione si presenta come una persona attenta a seguire gli avvenimenti mentre si svolgono. La postura delle dita, che sembrano pronte ad impugnare un pennello, in questo caso reggono una lanterna di carta che non illumina la scena ma è utilizzata come simbolo di conoscenza. Una lampada che, come quella di Diogene, cerca l’uomo e con la quale il pittore sembra chiedere a chi osserva l’opera cosa avrebbe fatto se si fosse trovato in quel luogo: avrebbe riconosciuto in Gesù di Nazareth il Messia, avrebbe avuto il coraggio di intervenire di fronte a tanta violenza contro un uomo solo[11]?
Sono molti e contrastanti i sentimenti che muovono i personaggi che partecipano alla vicenda: la paura e la rassegnazione, l’orrore del sacrificio ed il coraggio di affrontarlo, il tradimento mascherato dal bacio, lo spavento istintivo e privo di controllo del giovane, la violenza indifferente e consumata degli armigeri, che con i loro occhi nascosti dagli elmi sembrano anonimi artefici della violenza che è da sempre cieca ed infine, la curiosità distante ma partecipe dell’uomo con la lampada. Sono sentimenti che fanno parte anche della nostra storia e trasformano la tela in un grande capolavoro.
All’incontro con la stampa, insieme ai curatori Francesco Petrucci e Don Gianni Citro, hanno partecipato il presidente della Fondazione Banco di Napoli Orazio Abbamonte e il presidente del Museo dell’Archivio il Cartastorie Marcello D’Aponte.
In ragione della sua eccezionalità, il quadro è stato notificato dallo Stato Italiano con Decreto del 2 dicembre 2004 del Ministro dei Beni Culturali come opera di particolare interesse per la Nazione. La presa di Cristo dovrebbe essere fruibile a tutti e sempre attraverso un deposito permanente presso un’istituzione museale, pubblica o privata. La prestigiosa Fondazione del Banco di Napoli per la sua Storia potrebbe rappresentare un’autorevole e prestigiosa candidatura.
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LA PRESA DI CRISTO
all’Archivio storico
Fondazione Banco di Napoli, via dei Tribunali, 213 – Napoli
Fino al 16 giugno 2024
Dal martedì alla domenica dalle ore 10.00 alle ore 18.00 (ultimo ingresso ore 17.15) – Lunedì chiuso.
Prezzo biglietto: Intero – 10 € / Ridotto (da 12 a 17 anni e scuole) / 5 € Gratuito (da 0 a 11 anni e disabili con accompagnatore)
Fondazione Banco di Napoli – evento ufficiale
I biglietti sono acquistabili online TicketOne o presso la sede della Fondazione TicketOne (link affiliato)-
NOTE
[1] Daniela del Pesco Arrangiarsi con arte. Note su Ferdinando Sanfelice: maestri e libri Studi e ricerche di storia dell’arte europea Confronto N° 1/2018 Editori Paparo pag. 151-178.
[2] Palazzo Cuomo venne comprato dal Banco nel 1787.
[3] https://www.campaniartecard.it/wp-content/uploads/2016/04/domeniche-in-dimora_napoli-e-prov.pdf PAG. 3-4
[4] L’artista e critico d’arte inglese, Roger Eliot Fry (1866-1934) autore di questa frase, sebbene sta stato un critico severo allo stile di Caravaggio con questa citazione sembra sottolineare l’eccezionalità della sua opera.
[5] Andrew Graham-Dixon studioso e divulgatore di storia dell’arte inglese
[6]Jonathan Harr Il Caravaggio perduto Edizione Rizzoli, 2010
[7] https://artepiu.info/caravaggio-presa-cristo-sannini-ruffo/
[8] Roberto Longhi (1890-1970), il riscopritore di Caravaggio, individuò nel 1943 a Firenze, nella collezione dell’avvocato Ladis Sannini, la tela di cui stiamo parlando. Secondo Longhi si trattava di una copia da Caravaggio, “fedele, anche nelle misure (m. 2,45 x 1,65), all’originale smarrito”.
[9] Nel catalogo della casa d’asta Dowell’s, all’archivio della National Portrait Gallery, dove accanto al “Tradimento di Giuda” di Gherardo delle Notti, c’era un pagamento di 8 ghinee: non si sa però se fu la cifra per cui venne venduto, oppure quella di partenza.
[10] Giovanni Pietro Bellori, nel volume Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni pubblicato nel 1672 le descrive come “mani incrocchiate”
[11] https://www.chiesadimilano.it/pgfom/files/2020/04/1_Gioved%C3%AC-Santo_Caravaggio_La-Cattura-di-Cristo.pdf