«Agosto. Mi ricordavo diversa la città. Me la ricordavo diversa mentre non riconosco più le buche. E tu, riconosci le mie buche? Ma non è ancora agosto, forse è per questo che scivola la mano dentro i pantaloni delle strade e si ritrova a vagare, tra i vizi azzurri delle pozzanghere sugli zigomi dei marciapiedi. Tra le mani un liquido vischioso, la testa all’indietro cento occhi che mi guardano tra le clavicole. Mi vorrebbero sradicare spogliare, per ora diresti solo che mi osservano. E sono i tuoi»: è la lirica “Plastica”, contenuta nell’intensa silloge poetica “Semiotica notturna” di Cristina Eléni Kontoglou.
La città, in queste poesie, è fortemente presente: è una metropoli cyberpunk i cui elementi artificiali si sovrappongono a volte alla biologia umana, e viceversa; ed ecco che, ad esempio, i marciapiedi hanno zigomi, e gli esseri che camminano nelle strade deserte perdono i loro contorni in quelli della notte, mescolandosi ad essa e ritraendosi poi profondamente trasformati.
La menzione all’estate nella poesia appena citata è indicativa, perché la poetessa ha scritto in prevalenza in quella stagione: Cristina Eléni Kontoglou si è ritrovata in una città deserta che le ha parlato e le ha mostrato le sue vere fattezze; da queste suggestioni sono nate delle raffinate e sibilline poesie in cui si parla di contaminazione tra sostanze diverse, di unione dell’umano con l’artificiale attraverso il veicolo dei sensi.
La metropoli postmoderna descritta dall’autrice diviene il palcoscenico in cui rappresentare l’umanità nella sua ricerca di un significato più intimo e ancestrale, nel suo viaggio verso l’essenza: come nei processi alchemici, anche in queste liriche si mette in scena la trasformazione della materia da sostanza impura che viene scomposta, per poi essere purificata e, infine, ricomposta, assumendo un diverso significato.
L’opera, divisa in tre sezioni – Materia, Purificazione e Trasmutazione – ripercorre infatti le fasi alchemiche della Nigredo, dell’Albedo e della Rubedo, evocando simboli potenti e mostrando la vera faccia delle cose, quella che si trova nel profondo, e che si può ammirare solo togliendo le maschere, togliendo gli strati degli inganni che mettiamo in atto ogni giorno, per sopravvivere in una società che ci vuole sempre più finti.
Quando si arriva alla fase finale della Rubedo, veniamo colpiti dal fatto che la poetessa ha deciso di consegnare a un unico componimento la sintesi della trasformazione: una poesia densa di parole, che scorrono fluide senza stacchi, come un fiume in piena che si riversa nel mare, portando con sé la consapevolezza e la saggezza del viaggio. (Mariella Trasa)
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