Nei giorni scorsi a Napoli lo scultore Jacopo Cardillo, in arte Jago, ha lasciato una sua scultura in marmo a Piazza del Plebiscito che rappresenta un neonato adagiato a terra in posizione fetale, con il cordone ombelicale sottoforma di catena, ancorato al pavimento.
Titolo “Look down”, un monito a “guardare in basso” tutti coloro che poveri e disagiati vivono a pieno il malessere di questa pandemia e la crisi economica. La metafora di un bimbo indifeso e innocente che però ha già un futuro segnato, pesante come il metallo.
Per chi non lo conoscesse, l’artista è originario di Frosinone e attualmente vive ed opera negli Stati Uniti. A 23 anni viene selezionato per esporre alla 54esima edizione della Biennale di Venezia e da là in poi inizia il suo percorso che lo porta a esporre in Italia e nel mondo.
Ma Jago è una figura che divide l’opinione pubblica. Ha senza dubbio grande padronanza della materia e della tecnica, è stato definito “lo scultore social” perché si è fatto promotore di se stesso sulle principali piattaforme online. Ha intuito tutto il potenziale di una buona comunicazione e la valenza di un team nel marketing. E’ per così dire, figlio del suo tempo, di un tempo al passo con la tecnologia e il web.
Chiunque abbia del talento artistico e riesca a farne il proprio mestiere, merita un plauso (vuol dire essere non soltanto apprezzati ma anche pagati per lavorare e se vi sembra strano invece è una cosa che dovrebbe succedere anche per gli artisti), la differenza che passa tra un’opera d’arte e un prodotto sul mercato, oggi è sottilissima.
Attenendoci a “Look down”, l’opera coglie l’ispirazione del momento storico che stiamo vivendo, soddisfa emozione e riflessioni in cui è troppo semplice immedesimarsi perché ci stiamo dentro tutti, nella crisi e nella pandemia, tutti ci sentiamo messi in trappola e non abbiamo alcuna visione ottimista del futuro.
Se andiamo oltre ai più semplici discorsi del “mi piace/non mi piace”, va da sé che si fa leva sempre e esclusivamente su fattori momentanei senza una ricerca o un progetto più a lungo termine.
E quello che si ottiene è un prodotto appunto, un logo, un simbolo istantaneo. Nello specifico, una scultura che vale potenzialmente un milione di euro e che però ci vorrebbe parlare di malessere e povertà…
Spesso si parla di un vuoto creativo nell’arte contemporanea ma non dimentichiamoci che è il sistema dell’arte stesso a tirare fuori soltanto alcuni profili, ignorando tutto il resto.
Un esempio veloce: se vi capiterà di andare a una Biennale d’arte, noterete che le idee ci sono eccome ma al tempo stesso ne vedrete i limiti. Non può essere racchiuso tutto in alcuni padiglioni. Ci saranno stati esclusi che forse erano anche migliori, ma non lo verrete a sapere.
La maggior parte di noi non è addentro alle regole dei mercati, delle gallerie, delle fiere e delle esposizioni internazionali. Se vede qualcosa che emoziona, allora basta e va bene. Ma per quello che riguarda l’aspetto più etico del fare arte, chi viaggia su numeri alti (follower e soldi) e ne possa aver avuto il merito (non sempre), ne deve avere anche e soprattutto la responsabilità.
Da sempre moltissimi artisti si trincerano dietro a frasi come “Io l’ho fatto, tu ci puoi vedere tutto quello che vuoi” senza pensare che magari a qualcuno può interessare sapere cosa abbiano sentito e visto loro al momento della creazione, perché a qualcosa avranno pur pensato.
E allora, puoi essere un prodotto come vuole il gallerista di turno ma puoi anche portare avanti una ricerca valida e originale che non sia legata solo all’emozione di pancia.
Se non lo fa chi ha talento, allora chi? Lo stesso Jorit, il ritrattista della città, apprezzatissimo e richiestissimo, potrebbe tranquillamente non limitarsi nel tempo a iconizzare personaggi attuali e non.
Per ricordare alcune opere che sono passate sui sanpietrini del Plebiscito, non possiamo non nominare la Montagna di sale di Mimmo Paladino o le capuzzelle nere di Rebecca Horn, intitolate “Spiriti di madreperla”. Sia chiaro che non si sta facendo alcun paragone con le opere in sé ma piuttosto con il fatto che, a differenza di oggi, fossero parte di percorsi e non episodi isolati di esaltazione individuale.
Forse bisognerebbe anche tenere in conto che Napoli artisticamente parlando richiede originalità estrema, non è una piazza facile e non si accontenta. Ti può far ricordare nel tempo o ti può lasciare abbandonato a terra. Vedremo.
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