Poesia/ Alessandro Scotto Di Minico: il trapasso della giovinezza. Tra nostalgia di assenze e un plumbeo senso di vuoto

0
123

Nell’ordinato disordine (mi si perdonerà l’ossimoro) del mio tavolo da lavoro, in parte nascosti da fogli sazi di scrittura e da altri malinconicamente ancora bianchi, sono riemersi, a reclamare di nuovo attenzione e studio, l’una accanto all’altra, due agili pubblicazioni  –  peraltro già non poche volte lette – forse solo in apparenza testimonianza di interessi diversi e anzi persino identiche nel formato editoriale: una rapida e bella raccolta di saggi di un maestro degli studi storici non più in vita [C. Violante, Devoti di Clio, 1985] e un delizioso volumetto di poesie di un giovane poeta (Alessandro Scotto Di Minico, Il trapasso della giovinezza, Napoli 2024, Edizioni Controcorrente), che, appunto, il caso un giorno decise, nei suoi imperscrutabili disegni, di farmi incontrare, mentre entrambi eravamo presi da altre faccende, che in nulla si accompagnavano alla poesia.
O, forse, mi sbaglio; perché se ogni azione degli uomini, come è stato scritto, potrebbe diventare un “fatto storico”, non vedo perché negare a ogni occasione della vita di essere possibilità di poesia.
Allora, è proprio il caso (di nuovo!) che lo sguardo rimetta a fuoco l’allettante collocazione dei due volumetti e affidi l’immagine al pensare critico.
Coincidenza, casualità? Interrogativo iterato al quale voglio rispondere con un ‘no’ fermo e pensare piuttosto a una scelta voluta e poi dimenticata dalla claudicante memoria del vecchio lettore. Del resto piacque alla mitologia greca affidare alla protezione della musa Clio tanto la storia quanto la poesia, perché poeti e storici consegnano al ricordo e, talora, alla fama nel tempo. Magari il titolo stesso della raccolta di versi di Scotto Di Minico sembra rimandare a una intersezione tra poesia e storia, sia pure in una dimensione intima e domestica, almeno per il lettore che avvicina la poesia con animo ‘sognante’.
Credo infatti sia abbastanza nota la riflessione di Aristotele che attribuiva alla poesia un maggior rilievo teorico – “più filosofica”, per ripetere le sue parole – rispetto alla storia, perché le conoscenze che la poesia consente ci aprono ad un maggior grado di universalità. Una riflessione alla quale deve aggiungersi, tra le altre e millenni dopo, quella di Alessandro Manzoni per il quale solo il poeta può indagare i fatti dall’interno, leggendo negli anfratti misteriosi e segreti del cuore dell’uomo, al contrario dello storico, capace di raccontare i fatti soltanto esteriormente.
Qualche secolo dopo, un altro scrittore, Andrea Zanzotto, porrà, quasi come questo trasognato lettore/recensore, idealmente accanto, sul suo scrittoio, storia e poesia, proponendo la poesia come un farmaco o rimedio nei confronti dei ‘dolori’ della storia, che però egli vede come una sorta di mappa, quasi una “scrittura sul terreno” utile a ripercorrere i nostri ricordi, insomma, mi sembra, l’idea di una funzione catartica della storia, volta a porla al di sopra delle passioni dell’umanità, proprio perché soltanto nella severa  meditazione dello storico la realtà troverebbe sistemazione e logica.
Ma – ne sono del tutto convinto – questo sereno distacco, questo diaframma tra lo storico e i fatti accaduti non può esistere e allora torniamo al poeta, mentre lo storico gli si siede accanto, discreto ma partecipe, se, come ammoniva Croce, “il pensare storico è atto d’amore”.
Itinerario poetico e storico insieme, dunque, questo di Alessandro Scotto Di Minico, giovane di ricche letture e altrettanti interessi, perché, come ha ben visto Ida Albonico nella Prefazione, ripercorre e riflette le esperienze culturali, le emozioni e i disagi esistenziali, le letture e le “esperienze di vita dolorose” dell’autore stesso, la nostalgia di assenze e un plumbeo senso di vuoto.
Le assenze, dicevo; sembrano quasi riproporre nel Nostro il motivo medievale dell’ “ubi sunt qui ante nos in mundo fuere”.
Dove sono il padre, se non nelle tristi quattro assi di legno; dov’è la nonna, vero nume domestico della famiglia, presenza viva, ed evocata nei versi di Scotto, eppure assenza dolorosa ed ormai sfiorita, come le “tre rose spampanate” (che bello questo aggettivo vernacolare e desueto!) nel suo vaso, anch’esso rimasto solo, ormai senza più la incerta “fanciulla” indifesa tra le nebbie di una dolce “vecchiezza dementata”.
“Dove sei Tu che viva mai m’apparisti”, Belinda Lee, venere eterna, insieme ai tuoi mille amanti? “E dove sono ora le tue ciglia arcuate che su vecchie immagini impresse ancora mi tramortiscono?”
Ma dov’è il Poeta stesso, “di me che rimarrà” “se solo ospiti siamo di questo mondo”, “se ciò almeno di quel corpo resta”. Non rimane che  un “buongiorno” detto alla tristezza, la nostalgia di “occasioni perdute”, delle donne non più trovate, magari del “biondo riverbero” di quei lontani “capelli di grano” o “il piccolo ricordo” di un luglio a Ferrara reso struggente da un ritorno mai più avverato, silenzioso compagno di “un telegramma inevaso”, inascoltato messaggero della disperata “necessità di rivivere con te il tempo passato”, dove solo il Poeta può sognare di “far vivere nel proprio vivere  … l’essenza dell’amore”. Ma poi, a ben ricordare, proprio un poeta, Giuseppe Ungaretti – in una delle sue Lettere a Bruna (pubbl. postume a Milano nel 2017) – non ritiene forse l’amata «vivente amore di Poesia»?
O probabilmente – chi può dirlo? – solo la Bellezza “vince le folte tenebre”, intramontabile come i marmi incorrotti di Prassitele, pur se rievocata dinnanzi alla tomba dell’attrice mentre “lagrimando sgorga la strofa”.
Ecco, pagina dopo pagina e giunto all’ultima questo volumetto, dolce come balsamo, non ha ora più emozioni da raccontarmi né sogni da farmi vivere e però tutto, invece, mi scorre dentro e lì rimarrà, insieme a tanto altro, fino “al limitare della [mia] notte”, come sempre accade. Ma questo giovane e ispirato Poeta sa darmi speranza e dirmi ancora che “la vita inizia domani” ed allora, insieme a Lui anche “io bevo un bicchiere di dolce illusione”.
Il destino, l’ananke, a cui anche Zeus e gli dei dell’Olimpo non potevano sottrarsi, vorrà però – almeno, orazianamente, hoc erat in votis –  che non siano sfiduciata illusione le fidenti parole di Gerardo Allocca nella Postfazione al volume: «In tempi come i nostri, dove leggere è divenuto un rischio mortale  …. la letteratura è una rarità che di regola uno non si aspetta», come rarità sarà per il lettore godere la lettura di queste deliziose, forse sofferte, liriche di un poeta dalla raffinata cultura, anche storica.
Sì, Clio è ancora tra noi e non solo sul mio tavolo da lavoro, dove, terminate queste note, mi accorgo che i due volumetti di cui ho detto all’inizio sono, “quasi per incantamento”, di nuovo l’uno accanto all’altro sfiorandosi – ripeto Croce – come «atto d’amore». (Gerardo Sangermano)
©Riproduzione riservata

RISPONDI

This site is protected by reCAPTCHA and the Google Privacy Policy and Terms of Service apply.