Racconto/ Perdere: quella mano luminosa sulle disgrazie di un’umanità povera

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– Venga il prossimo.
Nell’aula severa ma non triste, con tutt’intorno scranni sui quali una variopinta folla si assiepa, piano avanza un poveretto il cui passo è impedito da grosse fasciature.
– Dategli una mano, non vedete che stenta a camminare? Dategli una sedia. Vada piano, non si preoccupi, non c’è fretta.
Un uomo, pallido, sofferente, con lo sguardo basso, spento viene avanti rassicurato dalle parole ma soprattutto dal tono chiaramente affettuoso con il quale lo hanno chiamato.
Giunto sotto il banco, più alto rispetto alla platea, dove siedono persone che non ha mai visto, si lascia cadere sulla sedia rischiando di crollare al suolo per l’incertezza con la quale muove il suo corpo. Visto da vicino, il suo stato fisico appare in tutta la sua drammaticità: bende, arrossate di sangue, ormai raggrumato, gli cingono il capo, il braccio destro trattenuto da una fasciatura mentre il sinistro si appoggia a un bastone di fortuna; le gambe, sembra che hanno perso la loro postura naturale, mentre il piede sinistro viene trascinato chiaramente senza capacità di reggere il peso del corpo. Per qualche momento tutti lo guardano senza parlare; anche gli alti prelati, seduti in alto, lo guardano in silenzio. Una tristezza infinita ferma le loro voci. E cosa si può chiedergli? Come pretendere un qualsiasi racconto della sua disgrazia che già non sia evidente in quel corpo ormai vinto?
– Hai dolore? Vuoi riposare ancora un po’? Vuoi un bicchiere d’acqua?
Parole inutili dette per annullare quel senso di disagio e di pena che si legge nello sguardo dei presenti.
Sia pure abituati a giudicare le disgrazie di una umanità povera, derelitta, lasciata ai margini della storia, ogni volta la presenza di un disgraziato, ancora un povero lavoratore perso nella speranza di una vita migliore, pretenderebbe urla di dolore, grida di disperazione, di rabbia ed invece…il ruolo lo proibisce; il compito assegnato loro non consente eccezioni; bisogna giudicare il comportamento del nuovo arrivato per potergli assegnare una destinazione finale. Occorre giudicare se ci è stata, da parte sua, distrazione o, peggio, sciatteria nello svolgere il proprio lavoro. Dividere le responsabilità, come stabilisce la legge…già ma quale legge? Chi l’ha scritta? Ed a favore di chi? Ogni volta queste domande assillano la mente dei prelati chiamati in questa giuria ma ora, ancora una volta…
 -No, grazie eccellenza, ora sto bene; il dolore è passato solo vorrei, se è possibile…
-Dimmi, dimmi pure, non avere timore, che cosa vuoi?
-Ecco, eccellenza, vorrei sapere i miei figli come stanno, che cosa gli hanno detto…sa, sono piccoli, non avranno capito…che cosa avranno pensato quando non sono tornato a casa. Ogni sera, sa, era una festa, avevo sempre qualche sorpresa per loro, l’aspettavano, il più grande mi leggeva qualcosa dal foglio di giornale che avevo preso nel cantiere; poche notizie anche senza importanza, era per farmi vedere che ha imparato a leggere. Sì, lui è bravo a scuola, ed io non voglio che faccia il mio lavoro, sa, è pericoloso…
Qualche prelato tira su con il naso ma occorre procedere.
– Parli bene la nostra lingua, come mai?
– Sono in Italia da molti anni; sono venuto da solo, un viaggio lungo; un mio parente mi ha chiamato; poi ho fatto venire la famiglia, non è stato facile, ma ora siamo, di nuovo, tutti insieme…o meglio eravamo… eccellenza…mi aiuti, sono disperato, come vivranno ora i miei figli? E mia moglie, che cosa potrà fare? Li rimanderanno nel mio paese, ma lì c’è la guerra, la miseria…
Un pianto silenzioso impedisce al povero uomo di continuare.
– Passatemi la pratica. Le parole interrompono i lamenti ed anche l’emozione alla quale nessuno riesce a restare indifferente. Nonostante la lunga pratica di tutti i componenti della giuria ogni volta è uno strazio, un indicibile dolore che si rinnova e al quale non c’è rimedio possibile.
Che cosa possiamo fare? Ogni volta i giudici si sono chiesti guardandosi smarriti; perché proprio a noi è toccato questo compito così doloroso? Ma non ci sono risposte a tutta questa sofferenza.
– Qui c’è scritto che hai perso la vita il giorno 12 di questo mese alle ore venti capisci? Cioè alle otto di sera a casa tua. Che cosa hai da dire.
Prima di rispondere l’uomo di guarda intorno. Forse cerca un viso amico o, più sicuramente, vuole assicurarsi che non ci sia il suo datore di lavoro? Questo suo atteggiamento non è chiaro. Si muove sulla sedia ed, a bassa voce, risponde.
– Eccellenza forse non ho capito bene ma io non ero a casa, mi volevano portare ma, dopo, hanno deciso di andare all’ospedale dove mi hanno lasciato. Però, non mi ricordo bene; qualcuno piangeva, tutti urlavano ma io che sono caduto, questo me lo ricordo bene.
– Ma era sabato, perché eri nel cantiere?
– Eccellenza quando c’è un lavoro urgente da finire allora andiamo il sabato e, qualche volta, anche la domenica; questi sono i giorni in cui c’è minore controllo e allora mandano noi, sa, quelli senza contratto. Gli italiani vogliono stare con la famiglia e hanno ragione.
– Ma vi pagano di più?
Il silenzio, a volte, è più significativo di tante parole.
– Potete rifiutare però.
– Eccellenza c’è sempre qualcuno che vuole andare al posto tuo; e se non lavori non hai soldi per i tuoi figli.
– Ma ci sono leggi che vi proteggono.
– La legge non è per noi. Noi non esistiamo; di noi si parla solo quando qualcuno muore. Tutti sanno che cosa succede nei cantieri e nei campi dove, con qualunque tempo andiamo a lavorare. Ma i nostri figli no, quelli devono studiare, noi, la mia generazione ormai è condannata ma deve continuare per i figli. Quelli avranno un posto nella vostra società e allora i miei sacrifici avranno avuto un senso ed io, allora, potrò riposare nel giardino del profeta. Ma ora eccellenza, che cosa accadrà? Ditemelo? Chi provvederà ai miei piccoli, alla loro mamma? Ditemi eccellenza, voi che avete studiato, voi che conoscete la legge, questo è giusto?
Ma proprio per questo dovevi stare attento. Non ti dovevi distrarre; le disgrazie, a volte, sono la conseguenza di una distrazione. Bisogna lavorare rispettando le norme di sicurezza.
In realtà, come spesso accade, le parole sembrano un rito necessario, un repertorio richiesto dal ruolo ricoperto. E, in questo processo, tutto avviene secondo un programma già scritto.
– Eccellenza, quel giorno pioveva, nessuno voleva salire sull’impalcatura; le tavole bagnate sono scivolose. Lo avevamo anche detto al capocantiere; si doveva mettere una protezione; e per questo ci vuole tempo.
– Ma, non siete legati, non avete cinghie di sicurezza?
– Eccellenza, si è vero, ci sono le cinghie ma quelle, poi, rallentano il lavoro e, a fine giornata, ti trattengono i soldi perché dicono che non hai finito tutto quello che dovevi fare. E allora devi correre; non c’è tempo per stare attenti; anche se sei stanco, devi continuare, ogni giorno c’è solo tempo per morire. Ma nessuno se ne accorge. Siamo solo un altro numero. Eccellenza, ho sentito, lei nel verbale ha letto: ha perduto la vita. Ma scusi eccellenza, io non conosco bene la vostra lingua ma le parole hanno un loro significato perciò, mi perdoni eccellenza, ma io credo che quello che ho sentito, quello che lei ha detto non è esatto; e non capisco perché dicono così; si perde una cosa che si ha ma io, non sono sicuro di avere una vita; le mie giornate, e quelle di tanti altri, sono soltanto ore strappate alla morte. Perdere, lei ha detto, ma come è possibile, mi deve credere, e poi quella che voi chiamate vita io non l’ho persa, la tenevo stretta, io devo crescere i miei figli, come posso perdere una cosa così preziosa.
Nella sala tutti ascoltano in un silenzio che è già un giudizio. Nessuno ha il coraggio di spiegargli che, nei referti medici, e nelle cronache dei giornali, nelle notizie, ripetute nei telegiornali della sera, quello è il linguaggio usato; ma ha ragione; come si può continuare a usare questa espressione. Perdere la vita non è esatto, non rende giustizia ai tanti lavoratori morti in incidenti ogni giorno. Loro, povera gente, la vita non l’hanno persa, gliel’hanno strappata con violenza, con cinismo, risparmiando sulle norme di sicurezza.
– Ascolta, dobbiamo decidere. Lo so è penoso; ogni giorno sentiamo tanti disgraziati; non ci abituiamo mai ma non possiamo fare niente, il nostro compito, purtroppo, lo sai, non ammette altro.
– Bene, allora ho deciso; sì, io lo mando in Paradiso.
– Ma non puoi, lui non crede in Dio, nel nostro Dio.
– E tu credi che il nostro Dio lo caccerà via? Allora si assuma lui la responsabilità di condannare questo poveretto; io non lo faccio.   
– Ma allora tu credi che…
– Io credo che se Dio permette tutto questo allora ci sarà una ragione che a noi sfugge. Che peccato può mai aver commesso questo uomo che con la sua misera vita non abbia già riscattato.
E allora, una mano grande, luminosa fatta solo di aria, scende sul capo di quel povero uomo che ora si allontana piano.

©Riproduzione riservata
Foto da Pixabay

L’AUTORE
Ecco un altro racconto di Francesco Divenuto ispirato alla vita, dal titolo “Perdere”. Al centro, temi di attualità ma anche quel senso di pietas, tra clemenza e giustizia, che ormai sembra perduto.
Già professore ordinario di storia dell’architettura all’università Federico II, Divenuto è autore di saggi, racconti e pubblicazioni collettive.

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