Il conflitto in Ucraina ha riproposto con forza il termine: resistenza. Il fior fiore di giornalisti, intellettuali e opinionisti nostrani ha insistentemente costruito una sorta di parallelismo fra ciò che accade oggi nell’Europa orientale e il movimento di liberazione che, nel 1943-45, cacciò il nazifascismo dal nostro Paese.
Per comprendere quanto siano fondati questi raffronti, abbiamo rivolto alcune domande allo storico e saggista Francesco Soverina, esponente dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea, cui abbiamo chiesto di ricostruire la cornice storica in cui si svolse la lotta di liberazione, soprattutto nel Mezzogiorno, per meglio comprendere il presente.
Recentemente, come ogni 25 aprile, abbiamo celebrato l’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Quanto ha inciso realmente la Resistenza nel Sud Italia?
Oltre alle Quattro giornate, che vengono ricordate come l’episodio centrale di quanto è accaduto nel Sud, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, vi sono stati altri episodi rilevanti. Tuttavia, nella percezione comune, le uniche pagine di storia meridionale inserite nel moto resistenziale sono le Quattro giornate. Eppure, non c’è stata solo quell’insubordinazione di massa, che fu caratterizzata – è bene sottolinearlo – dall’incontro fra esponenti politici dell’antifascismo organizzato e strati popolari, proletari, intellettuali, nonché militari sbandati. Non si dimentichi che i protagonisti di quegli eventi si sono mossi nella cornice dell’irruzione della guerra totale in casa, in Italia e nel Mezzogiorno.
Puoi parlarci di alcuni di questi episodi?
Ad esempio, ce n’è uno molto poco conosciuto, avvenuto in Puglia l’11 settembre 1943. A Barletta, il 15° reggimento costiero, insieme alla popolazione civile, respinse i tedeschi. L’indomani, i militari della divisione “Hermann Göring”, corpo d’élite dell’esercito teutonico, marciarono sul centro della città e, dopo aver trattato la resa con la guarnigione locale, diedero inizio alla caccia all’uomo, fucilando 12 vigili urbani e 2 netturbini. Nel frattempo, ci furono scontri in cui perirono 37 militari e 24 civili. Non solo. Anche a Matera, in Basilicata, il 21 settembre, scoppiò un’insurrezione, che anticipò di alcuni giorni la rivolta di Napoli. Le vessazioni subite dagli abitanti da parte dei nazisti scatenarono la collera popolare. Per le “orde” di Hitler “tutto era diventato bottino”. Secondo quanto riporta la testimonianza di un abbate locale, Marcello Morelli, fu un ufficiale di complemento, Francesco Nitti, che distribuì munizioni a giovani ed anziani attingendole da un proprio deposito clandestino. La popolazione costrinse i tedeschi alla fuga, ma i nazisti fecero in tempo a far esplodere una caserma in cui avevano rinchiuso 21 ostaggi.
Ce ne furono altri?
Sempre in Lucania, a Rionero in Vulture, il 16 settembre, la popolazione locale, stanca delle requisizioni, assaltò un magazzino militare. Sul terreno rimasero morti e feriti. Otto giorni dopo, 18 civili vennero abbattuti da raffiche di mitra dei tedeschi e dei paracadutisti italiani della “Nembo”. Si trattò della prima rappresaglia teutonica con la collaborazione di militari italiani. Motivo per cui è giusto ricordare anche questo efferato eccidio. Fu probabilmente il primo episodio di guerra civile o, quantomeno, di protagonismo di una parte delle truppe che si riconoscevano nel fascismo. Di lì qualche giorno nacque lo Stato fantoccio della Repubblica Sociale Italiana col sostegno della Germania nazista. Infine, vorrei menzionare un ultimo episodio, quello della Brigata Majella in Abruzzo, formazione partigiana a tutti gli effetti, che riuscì ad impegnare in una battaglia campale, a Bosco Martese, le truppe tedesche. Fu il primo scontro in campo aperto fra partigiani e nazifascisti. Era il 25 settembre 1943.
Quindi, nel Mezzogiorno abbiamo avuto i primi esempi di guerriglia partigiana?
Sì. Fra l’altro, episodi di guerra civile si verificarono anche nel corso delle Quattro giornate di Napoli. In città, operarono cecchini fascisti che spararono sui rivoltosi. Quando vennero catturati da partigiani e patrioti, furono fucilati sul posto. Di tutto questo si è persa la memoria. Voglio segnalare anche, spostandomi nel casertano, le insurrezioni di Santa Maria Capua Vetere e di Capua. Lungo la fascia tra Maddaloni e Capua, sotto una consapevole guida politico-militare, si sviluppò un’opposizione armata in grado di impegnare un contingente della 16ª divisione corazzata “Hermann Göring” in una battaglia campale sulle colline del Tifata, presso San Prisco, il 27 settembre 1943. Mentre a Napoli stava per scoppiare la ribellione di massa, nel casertano avvenne la saldatura tra nuclei comunisti, giovani, sfollati e militari sbandati che, per evitare la deportazione o la cattura, si armarono. Dal 23 settembre 1943, i nazisti avevano dato il via alla sklaven jagd, la “caccia agli schiavi”, che in un primo momento vennero rastrellati e inviati a Sparanise e poi, spediti in Germania, per garantire il fabbisogno di forza-lavoro servile, utile a liberare quante più energie tedesche da inviare sui diversi fronti bellici. Non dimentichiamo che le razzie operate dai reparti del Terzo Reich consentirono il rastrellamento di ben 5 milioni di individui nell’Europa dell’Est e due milioni nell’Europa occidentale.
Ci puoi dire qualcosa in più sulla Resistenza nel casertano e perché sia importante menzionarla?
Su queste colline operarono bande e formazioni sorte spontaneamente, come il gruppo patrioti di San Prisco, il gruppo Cappabianca, il gruppo dei garibaldini del Capitano Campoccia. Su questo, ha lavorato pioneristicamente il compianto Giuseppe Capobianco, che è stato a lungo un dirigente del PCI, ricoprendo ruoli importanti nella federazione casertana e nel PCI campano. Questo storico militante ha tirato fuori da un cono d’ombra frammenti di storia locale e ha ricostruito il mosaico dentro cui questi tasselli vanno inseriti. Ne ha parlato in un libro, che si chiama: Il recupero della memoria. Per una storia della Resistenza in Terra di Lavoro (autunno 1943). Questi nuclei partigiani, come il Gruppo garibaldino del capitano Campoccia o quello diretto da Umberto Visconti, svolsero un ruolo non sottovalutabile nell’insurrezione di Santa Maria Capua Vetere (5-6 ottobre 1943), dove il movimento proletario aveva profonde radici. In tutti questi episodi che stiamo menzionando, si ebbe l’incontro fra le avanguardie politicizzate degli antifascisti locali e i militari che si erano rifugiati sulle colline, cresciuti di numero coi bandi nazisti per il servizio obbligatorio del lavoro.
Tirando le somme, possiamo dire che anche al Sud si ebbe la Lotta di Liberazione?
Sicuramente possiamo affermare che fu una prima espressione di forme di difesa e di lotta che poi si estesero e radicarono nel Nord Italia. Nel Mezzogiorno, si è vissuta la fase aurorale della Resistenza anche perché, come dicevo poco fa, il Sud fu segnato dall’irrompere della guerra totale in casa. Lo attestarono i massicci bombardamenti subiti, che si intensificarono a partire dal 4 dicembre 1942 e martoriarono Napoli e non solo per tutto il 1943. Dopo le Quattro Giornate, ci furono i bombardamenti di ritorsione della Luftwaffe, uno dei quali avvenuto a ridosso dell’ultima eruzione del Vesuvio, verificatasi il 20 marzo 1944. Ci furono pesanti bombardamenti anche su Capua e Santa Maria Capua Vetere oppure cannoneggiamenti, per non parlare degli eccidi, delle stragi compiute dall’esercito regolare tedesco in diverse località della Campania. Il numero delle vittime è stato particolarmente elevato soprattutto in Terra di Lavoro. Secondo stime recenti, i trucidati in Campania hanno superato addirittura le 1600 unità.
In quanto ricostruisci, colpisce molto la simultaneità degli episodi resistenziali. Al Sud, si verificarono diverse rivolte antifasciste anche se in assenza di una vera e propria direzione politico-militare, come fu per il Nord. Che ne pensi al riguardo?
Quando ho studiato questi accadimenti, inseriti dentro un processo storico particolarmente rilevante per la storia italiana, europea e mondiale, sono stato colpito appunto dalla loro simultaneità. L’11 settembre ci furono episodi di resistenza armata a Barletta, il 21 settembre ci fu la rivolta di Matera, il 27 settembre si svolse la battaglia sulle colline del Tifata e, poche ore dopo, scoppiò la rivolta popolare delle Quattro Giornate. Il primo ottobre arrivarono gli Alleati a Napoli, mentre si stava ancora combattendo in città; il 2 ottobre, poi, avvenne la strage nazista di Acerra. Il 5-6 ottobre scoppiò l’insurrezione di Santa Maria Capua Vetere. Dunque, riguardo all’esperienza meridionale, si è verificata una partecipazione che non può essere circoscritta alle Quattro giornate di Napoli, ma si è concretizzata nell’aperta rivolta di intere comunità locali, stanche di guerra, fame, disperazione, che si armarono e insorsero per difendere la propria sopravvivenza, raccogliendosi attorno a chi, per vent’anni, aveva avversato in clandestinità, fra sacrifici enormi, il regime di Mussolini.
Spesso si è dibattuto sulla natura della Quattro Giornate di Napoli, definita con un certo sprezzo una “rivolta di scugnizzi”. Ritieni appropriata questa definizione?
Si è dibattuto a lungo, è vero. Ma senza tener conto, a mio giudizio, di alcuni aspetti rilevanti. Innanzitutto, non è vero che le Quattro Giornate furono una rivolta di scugnizzi, perché essi furono appena il 10% dei combattenti ufficialmente riconosciuti da un’apposita commissione istituita nell’immediato dopoguerra. Più che altro, credo che all’interno della rivolta sia da evidenziare la presenza di tanti militari sbandati ed esponenti dell’antifascismo politico. Si veniva da vent’anni di fascismo e repressione nel corso dei quali il PCI, o coloro i quali che si richiamavano agli ideali marxisti, avevano cercato di opporsi ed erodere il consenso maggioritario dato al fascismo da consistenti strati sociali, a partire dai ceti dominanti. Un consenso che si dissolse durante la guerra, perché i fatti dimostrarono drammaticamente la divaricazione fra propaganda e realtà effettuale. Il regime si è inabissato per la guerra in cui aveva trascinato il Paese.
Quanto fu importante il ruolo degli antifascisti nell’insurrezione popolare?
Durante le Quattro Giornate si incontrarono diverse forme di antifascismo. Vi furono gli antifascisti politici (i comunisti cosiddetti “ufficiali” e quelli “eterodossi”, i bordighisti o quelli con simpatie troskiste). Ma nella rivolta vi furono anche gli azionisti e gli anarchici, come ha dimostrato lo storico Geppino Aragno coi suoi studi. Aragno, fra l’altro, ha coniato un’efficace immagine, parlando del volto politico delle Quattro Giornate. Vale a dire che, accanto agli scugnizzi, vi fu l’antifascismo politico che cercò di assumere un ruolo direttivo. Tuttavia, per la sua stessa natura, è chiaro che quella di Napoli non fu un’insurrezione a lungo preparata come quella del 25 aprile 1945, dopo venti mesi di occupazione nazifascista e guerriglia partigiana. Ma se non si tiene conto del contesto in cui l’insurrezione armata di Napoli prese corpo, non si possono comprendere i suoi elementi essenziali. Una forte partecipazione popolare fu garantita proprio grazie al lavoro degli elementi antifascisti, che provarono a dare un’embrionale direzione politica all’insubordinazione di massa.
Dopo le Quattro Giornate, mentre i nazisti ripiegavano verso il Nord, Napoli e il Mezzogiorno hanno vissuto una nuova occupazione, quella degli Alleati. Quanto ha inciso la loro presenza nella ricostruzione?
Ha inciso in maniera rilevante nel tessuto economico-sociale. Quello alleato era un esercito molto composito. C’erano gli americani, gli inglesi, i canadesi. Si trattava di un esercito ricco, che fece di Napoli la base logistica della retrovia di un fronte che distava effettivamente pochi chilometri. Ricordiamo che la risalita della Penisola da parte degli Alleati fu molto lenta e, difatti, si arenò alle falde di Montecassino. I tedeschi predisposero tre linee difensive, fra le quali esercitarono un ferreo controllo, perché avevano ricevuto l’ordine di depredare il territorio di tutte le sue risorse e di approvigionarsi con tutto ciò che gli occorreva. Gli Alleati, dal canto loro, trovarono una Napoli e un Mezzogiorno stremati, segnati dalla fame, dalla disoccupazione, dall’accattonaggio. Prima di andarsene, i tedeschi avevano incendiato o distrutto pezzi importanti dell’apparato produttivo partenopeo: pensiamo all’Ansaldo di Pozzuoli o all’Ilva di Bagnoli, abbattuta al 77% da sabotatori genieri teutonici con l’aiuto di un fascista locale, tal Polisano, che poi seguì i nazisti nella loro fuga verso il Nord e venne catturato e fucilato dai partigiani.
Come si viveva nella Napoli passata sotto il controllo degli Alleati?
La guerra aveva lasciato delle cicatrici profonde. Imperversavano la prostituzione, il mercato nero, un’inflazione galoppante. Pensiamo che la riattivazione dell’Ilva fu dovuta all’impegno e ai sacrifici della classe operaia napoletana. I comandi Alleati non erano intenzionati a rimetterla subito in funzione. Furono, invece, i lavoratori a farla ripartire con uno sforzo di ricostruzione enorme, compiuto tra il 1944 e il 1946. Ricordiamo anche che quello stabilimento industriale, fino al 1990, è stato il maggior polmone produttivo della città. Gli Alleati trovarono di fronte a sé un panorama desolante. Provarono in parte a risanare le ferite che il territorio e gli abitanti avevano subito, ma volevano frenare l’iniziativa della classe operaia. Dopo il 1945, ci fu anche il ritorno dei reduci dai vari fronti di guerra e, con essi, fecero rientro anche gli sfollati. Gli Alleati guardavano con diffidenza i napoletani e cercarono di tenere sotto osservazione una popolazione che era stata capace di insorgere e mettere in fuga uno degli eserciti più potenti al Mondo. I documenti angloamericani conservati nell’archivio dell’Istituto Campano per la Storia della Resistenza dimostrano quanto fosse stringente il controllo sulla popolazione, al fine di comprendere cosa vi ribollisse all’interno. Si cercarono di espungere dal popolo tutti gli elementi ritenuti pericolosi per la tenuta dell’ordine sociale. Come Ermanno Rea l’ha ben ricordato nel suo celeberrimo romanzo, Mistero napoletano, gli americani, insediarono una base militare che doveva servire a controllare tutto il Mediterraneo, visto che gli statunitensi andavano sostituendosi in quell’immensa “pianura liquida” ai britannici. Più in generale, l’attività disciplinatrice messa in campo dagli Alleati incise molto sugli sviluppi successivi della città. Ne è riprova l’affermazione plebiscitaria dei Savoia, al referendum che si tenne il 2 giugno 1946 sulla forma istituzionale dello Stato. Mentre nel Centro-nord ci fu una netta affermazione per la repubblica, al Sud si affermò a larga maggioranza la monarchia. E non fu un caso.
Il termine “resistenza” viene oggi ampiamente accostato al conflitto russo-ucraino. Si esalta l’eroismo dei combattenti ucraini, spesso inquadrati in formazioni neonaziste o di estrema destra, per motivare l’invio di armi ad un paese belligerante, in barba alla nostra Costituzione. Qual è la tua opinione di storico su quanto sta accadendo?
Per dirla tutta, credo che sia molto fuorviante associare la nostra Resistenza a quanto sta accadendo in Ucraina. Quella in atto, laggiù, ormai viene riconosciuta da molti commentatori come una guerra per procura fra due soggetti statali (USA e Russia) ed è una guerra che si svolge all’interno di una partita globale, che ha come posta in palio la leadership planetaria. La nostra Resistenza, invece, è stata un fenomeno complesso, sfaccettato, variegato. È stata insomma più cose, come la storiografia ha avuto modo di evidenziare. Secondo la tripartizione fornita dallo storico Claudio Pavone, la Resistenza è stata una guerra patriottica, una guerra di liberazione da un esercito occupante, una guerra di classe con fortissimi contenuti sociali. La parte maggioritaria delle formazioni partigiane, ossia di donne e uomini armati che hanno combattuto, l’ha fatto in nome di ideali di libertà e giustizia sociale. Essi si battevano per l’avvento di una nuova società, che mettesse fine alle diseguaglianze o le riducesse al minimo. La Resistenza è stata, inoltre, una guerra fra fascisti e antifascisti. Vanno chiarite ai giovani le ragioni che li contrapposero e che non possono essere messe fra parentesi per poi svanire nel nulla.
Ti riferisci all’equiparazione fra partigiani e repubblichini? Assolutamente, sì. Evocare oggi la categoria di “guerra civile”, non vuol dire – come incautamente è stato fatto anche da chi si collocava nell’ambito della sinistra moderata- mettere sullo stesso piano gli antifascisti -morti per la libertà e la giustizia sociale, la piena sovranità, la pace- coi fascisti, che al contrario si battevano per puntellare l’agghiacciante progetto del Terzo Reich, fondato sulla discriminazione razziale e sociale, che aveva nei Lager e nei centri di sterminio la sua terribile prefigurazione. I fascisti repubblichini si sono distinti per eccesso di violenza e la loro fu una pedagogia del terrore. A Milano, un anno prima che vi venissero esposti i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e altri gerarchi, in Piazzale Loreto vennero esibiti i cadaveri di partigiani per intimorire la popolazione.
Quindi, possiamo dire che il raffronto con la resistenza ucraina sia fuorviante?
Il paragone con la nostra Resistenza non regge, perché noi fummo fortemente avversi alle forme del nazionalismo autoritario e imperialistico. È paradossale che intellettuali, giornalisti, opinion maker, che per anni hanno vomitato contumelie sulla Resistenza italiana, cercando di ridimensionarne il peso, l’incidenza e il significato, trovando nel protagonismo delle formazioni comuniste e azioniste la pietra di inciampo e chiamandola addirittura “morte della patria”, invochino un paragone con la resistenza ucraina per legittimare la guerra che si sta combattendo contro la Russia, anche da gruppi come il famigerato Battaglione Azov, che nel Donbass tra il 2014 e il 2022 si è macchiato di gravi crimini contro i civili. È l’ennesimo sortita del revisionismo storico-politico, che si inscrive nel tentativo di stravolgere significato, contenuti, implicazioni della Resistenza italiana.
D’altronde, come dici, la Resistenza italiana si è battuta per la fine della guerra e contro ogni autoritarismo.
L’antifascismo è alla base del nuovo patto di cittadinanza sancito dalla Costituzione. Non a caso, l’articolo 11 della nostra Carta prevede il ripudio della guerra. Non va dimenticato che, nonostante la Liberazione, le classi dominanti italiane lavorarono per costruire una fortissima continuità fra il morente Stato fascista e gli apparati del nascente Stato repubblicano, proprio per far sì che gli obiettivi e i propositi della Costituzione non prendessero forma e corpo. Tuttavia, la nostra Costituzione parla chiaro, perché ripudia il nazionalismo autoritario, che veste i panni del patriottismo, ma nasconde il volto truce dell’espansionismo e dell’imperialismo. Questa è la maggior differenza fra la nostra Resistenza e quella ucraina. Ecco perché è del tutto infondato equiparare le due esperienze, perché sono fenomeni che nascono in situazioni, contesti e cornici del tutto differenti. Mi piace, in conclusione, rammentare le parole di Carlo Rosselli, una delle voci più nobili dell’antifascismo, che fu ucciso in Francia insieme col fratello Nello, il 9 giugno 1937, da sicari di estrema destra per conto dei vertici del fascismo. Dopo l’avvento del nazismo in Germania, in un suo articolo profetico del 1933 scrisse: «Siamo antifascisti, perché in questa epoca di feroce oppressione di classe e di oscuramento dei valori umani, ci ostiniamo a volere una società libera e giusta, una società umana che distrugga le divisioni di classe e di razza e metta la ricchezza, accentrata nelle mani di pochi, al servizio di tutti. Siamo antifascisti, perché la nostra patria non si misura in frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi».
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