Ricamare come approccio alla vita, come modo per viaggiare pur rimanendo fermi e per esorcizzare il dolore e le emozioni forti. È anche questo che racconta “L’ultima ricamatrice” di Elena Pigozzi ( Piemme, pagine 176, euro 15,50), un romanzo che rammenta la sapienza di un antico mestiere e di un mondo ormai scomparso, quasi per tutti, ma non per Eufrasia, la settantenne che da quasi 60 anni interpreta la vita attraverso i suoi “punti” e neppure per Filomela, una trentenne laureata che alla città preferisce la campagna e ai guadagni voluttuosi preferisce la quiete delle abilità sartoriali.
Ed è per questo che la giovane commissiona alla sarta, ricamatrice e tessitrice del borgo, il suo corredo e la realizzazione del suo abito da sposa, offrendosi come apprendista per perfezionare le sue abilità.
«L’ultimo lavoro porta il nome di una ragazza, Filomela. Ha bisogno del corredo da sposa. Abito, tovaglioli, tende e lenzuola. “Il necessario per abitare una nuova casa con il mio sposo” mi ha detto con una voce che è frullo d’usignolo. Erano anni che non mi chiedevano un corredo. Oggi, che è secolo pieno di zeri, la gente preferisce entrare in un magazzino e comprare roba già bell’e che pronta. Ho guardato Filomela per capire chi fosse quella ragazza che nel Duemila fa richieste così strane. Non l’avevo mai vista. Il paese è un piccolo borgo ormai quasi disabitato, siamo rimasti in un pugno di famiglie che possiamo contarci con le mani. “A me piace questo posto» mi ha detto modulando le parole con dolcezza. E mi ha raccontato che lei e Teodoro, il futuro sposo, hanno deciso di lasciare la città con il carico di frenesia e traffico”».
Una collaborazione fruttuosa, inizialmente di sole poche ore al giorno, che trascorrono nel lavorio e il silenzio del ricamo interrotto soltanto dalle incalzanti domande di Filomela, che desidera ardentemente conoscere il passato di questa anziana donna, che sembra uscita dalle pagine di “Piccolo Mondo”.
Una curiosità apparentemente bizzarra che non desta però sospetti in Eufrasia che decide di soddisfarla, sia per assecondare la ragazza, sia per sentirsi meno sola, come quando cuciva in compagnia di sua nonna Clelia.
«“Mi racconti di quando s’è innamorata” mi ha sussurrato, senza staccare lo sguardo dal modello. “Sono vecchia” mi sono difesa per cacciare l’imbarazzo. “Di com’è che è stato. Di com’è che è capitato” ha insistito. Difficile parlare di quanto nasce nella carne e non ha parole, ma altre forme. Difficile dire ciò che porto dentro da anni e proteggo da ciò che potrebbe rovinarlo. Se penso a quando è stato che mi sono innamorata, ricordo uno sguardo, un gesto, un volto che mi dice una frase, ma bene com’è stato non lo ricordo più. Perché è nato da un punto tra le pieghe del respiro e del cuore. È da lì che ho sentito il battito incepparsi, saltare un tempo e riprendere più veloce ». (Guido Iudicone)
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