Il gatto randagio Tonino Taiuti si prende la pedana di sala Assoli con uno spettacolo summa delle influenze poetiche e sonore di una vita.
Classe 1950, Taiuti è artista a tutto tondo da sempre attento alla difesa dell’ambiente sonoro del teatro di cui è interprete e difensore. Ricercatore di suono più che di significato, unisce in un lavoro che sa di sfogo, la corposità che accomuna il noise rock ad una lingua eccedente: il napoletano vivente, ossatura dei luoghi che lo hanno formato.
L’attore, a settantadue anni, si produce in una session sperimentale in cui entra recitazione, musica, improvvisazione. Una messa laica con tanto di sacralità, di nodo in gola, di odore di incenso e che pone la platea di fedeli di fronte ad un altare profano su cui capeggiano una chitarra, dei distorsori, una bibbia scritta da profeti del secolo passato. Il pubblico è invitato a non disturbare.
Taiuti è il portavoce di una di una gang di randagi come lui, tanto della poesia che della musica, a partire da Moscato, Palazzeschi e Sanguineti, poeti outsider capaci di influenzare profondamente l’immaginario di generazioni intere, senza che queste lo dicessero mai con troppa convinzione. E poi la musica, o quello che ne viene messo in mostra: il rumore felino dei Berio, degli Swan.
Gusto noir, tendente al truce che pure è minima parte di una naturalità dal sapore di terra, qui sublimata dalle installazioni video a cura di Vincenzo De Luce e Mino D’Andrea. I colori sottolineano questo tendere, riportandoci ad una ancestralità incontrollata, incontrollabile, che avviluppa la platea con viticci insidiosi, sonorità sfuggenti, loro, a cui però è impossibile sottrarsi.
C’è molto del Taiuti di Rasoi nel vagabondare di questo gatto randagio, immerso in atmosfere dure da Blues residuo, che mitizza e fa propria molta oscurità, molta ruggine. Molta mania per la distorsione, una rete di noise disturbante, annichilente.
Quello di Taiuti è un gioco. Vero. Non a caso fa quello che gli piace e lo spettatore è solo parte del disturbo, tanto che l’attore sembra non volerlo, non cercarlo. Sembra di poterne fare a meno.
Un gioco che però è anche finestra sulla realtà, lontana dalla tradizione popolare del sottoproletariato sub-urbano e più vicina alla sua disperazione.
Disperazione che urla nel vivere più o meno osteggiato (dal perbenismo, dall’elevazione sociale) di un’intera popolazione, anzi di popolazioni intere, che si muovono e si sono mosse nel ventre della città millenaria di cui lo stesso Taiuti è figlio.
Visioni, suoni, graffianti come gli artigli di un randagio, con il mito dell’america da qualche parte nel cuore, nella testa, ma profondamente a suo agio nella Babele nuda di moscatiana memoria, che pure gli appartiene.
Alla fine il randagio è contento, e nel suo girovagare per il palco sembra persino trovare compagnia. La compagnia di un Teatro vivo, che a volte spiega, a volte fa soltanto provare le emozioni recondite di una civiltà mai pienamente manifestata.
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In alto, Tonino Taiuti in scena (foto di Giulia Pizzuti)
Prodotto da Casa del Contemporaneo, lo spettacolo è andato in scena in prima nazionale dal 23 al 27 febbraio