Mettere in scena Shakespeare, oggi, è rischioso per qualsiasi professionista del palco.
Perchè se l’insuperato maestro della drammaturgia non passa mai di moda, di certo muta il gusto del pubblico avvezzo alla sala e, con esso, le modalità di approccio a nuove metafore, nuovi stili, nuovi significati di medesime parole, finanche nuove tecnologie sceniche.
Insomma, è dire: se pur non cambia il fascino di un classico come La Tempesta, necessariamente deve mutare il modo in cui il classico è proposto.
Diventa un come viene rappresentato il cosa e non più cosa viene rappresentato.
Se poi si porta lo spettacolo come apertura della stagione 2019/2020 e se è lo Stabile di Napoli, il già citato rischio aumenta, se non altro per lo status che il Mercadante è riuscito a raggiungere negli ultimi 8 anni.
Eppure, sarà il fascino senza età sia di quel teatro pomposo con relato il gusto di vedere signore d’altri tempi accostarsi allo spettacolo con la flemma della temporalità ritrovata, sarà la potenza evocatrice di quel nome tutto burrasca che costringe lo spettatore a confrontarsi con la non placa propria interiorità prima di sentire quel “siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”, senza tempo e con la sempre rinnovata forza emotiva espressa sulla pelle a distanza di quattrocento anni.
Sarà che un Luca de Fusco, regista dello spettacolo e direttore artistico uscente dello Stabile, che porti La Tempesta come prima del Mercadante per dare il suo saluto al teatro della sua città portato da lui nell’Olimpo teatri nazionali, vale da solo il prezzo del biglietto.
Perché non deve sfuggire che questo capolavoro fu il congedo di Shakespeare dalla carriera attiva. Una retrospettiva di un’ora e mezza sul suo operato, che dovette sgomentare non poco i suoi affezionati di quattro secoli fa.
Non possiamo, quindi, non vedere un parallelismo tra questi due saluti, l’uno conclusione di un ciclo artistico destinato a segnare per sempre la cultura occidentale, l’altro, congedo da un lavoro lodevole che speriamo continui a segnare positivamente il futuro culturale di una Napoli città frontiera tra le porte dell’Europa e un sud Italia isterilito e abbandonato ad un deserto socio-culturale.
Lo spettacolo è in realtà un ritorno, se si considera la versione andata in scena al Pompeii Theatrum Mundi la scorsa estate.
Questa Tempesta, nella traduzione di Gianni Garrera, ci trasporta in un sogno, una dimensione onirica che, si intuisce dalle prime battute, è interamente nella testa di un Prospero (Eros Pagni) stanco e invecchiato. Il palco dello Stabile diventa un carillon multi-cromato, in cui la narrazione di una vicenda trita e ritrita trova linfa nuova attraverso accorgimenti narrativi che alleggeriscono il carico di responsabilità della messa in scena.
Un Prospero, quindi, prossimo a raccogliere i frutti di questa tempesta da lui inscenata in cui non un solo capello di un solo passeggero a bordo di una nave che è solo parsa affondare, ha subito danno, e che comincia come da copione a raccontare a sua figlia Miranda ( Silvia Biancalana).
Una Miranda anni 50 ma figlia dei tempi: leggera, iperattiva, afflitta da una disattenzione inradicata che più d’una volta la vede smarrita prima di quel sonno ristoratore che Prospero impone di sua volontà, come per ogni cosa.
In questo sogno, tutti i personaggi che partecipano alla scena, sembrano mossi da una volontà non propria. La loro parola è mediata da una temporalità lineare e non libera, costretta, in una situazione che li vede fisicamente costituiti senza un senso logico nei costumi, nelle movenze o forzature di ruolo.
Un sogno lungo un’ora e mezza, in cui trovano spazio un principe Fernando (Gianluca Musiu) più prossimo ad un cucciolo che ad un ereditiero, un Alonso Re di Napoli (Carlo Sciaccaluga) che ha perduto ogni regalità, una macchinazione machiavellica e inconcludente a partire da Sebastiano (Paolo Cresta) e Antonio (Paolo Serra) che nulla può in uno scenario in cui la magia, l’illusione, lo sfavillante mondo di una mente buona è domina indiscusso. E dove violenza e vendetta sono soggiogate, rese al lumicino.
Una messa in scena ritmata dalla ubiquità di una magistrale Gaia Aprea, una antesignana Figaro, nei duplici panni di Ariel e Calibano: da un lato uno spirito buono responsabile per tutto quanto avviene in scena, dall’altro un umano deforme di anima e corpo, che i critici hanno sempre associato al poeta grezzo, destinato a redimersi con la fine della sua carriera. Perchè se Calibano è quel selvaggio malevolo che Prospero non fa che evidenziare lungo l’opera, e che ha imparato il linguaggio del suo padrone (altre letture direbbero usurpatore, Calibano, infatti è padrone dell’isola all’arrivo di Prospero e Miranda) con il beneficio unico di saper maledire, è anche emblema di quelle parti di ognuno non analizzate, non destinate a venire fuori se non saltuariamente.
Una prova, quella della Aprea capace di stressare le capacità attoriali di qualsiasi professionista, e che l’attrice tiene senza soluzione di continuità, senza un errore, senza un tentennamento, forse aiutata dalla totale e reciproca antitesi dei due personaggi, agli opposti l’uno dell’altro, e proprio per questo coppia atipica ma funzionale al fine ultimo della rappresentazione, nei loro estremi che si toccano.
Il legame di questo capolavoro senza tempo con Napoli, trova attuazione in una serie di artifizi comunicativi pregevoli, come mettere in bocca a Trinculo (Alfonso Postiglione) e a Stefano (Gennaro de Biase) parole di un napoletano grezzo, il napoletano dei mozzi, della gente del popolo.
Un popolo che è uguale a se stesso, immutato nonostante i volti mutino e un inglese grezzo e scurrile si trasformi in un napoletano parlato solo in alcuni luoghi, non modificando il senso profondo di quel parlare riempito di credenze, suggestioni, ironia, volgarità, non catalogabile in termini di tempo e spazio. Come dire, il mozzo che parla irlandese nel diciassettesimo secolo non differisce molto da quello che parla in dialetto campano in un sogno del 2019.
La Tempesta sotto la regia di De Luca lega a doppio filo, quindi, Napoli a Shakespeare. Non solo con il riferimento continuo a una storicità di cui l’autore inglese si nutrì nella scrittura di quest’opera, o con il dialogo in dialetto dei due mozzi che anima e drammatizza, una scelta rischiosa se non compresa, ma anche con il monologo finale di un Prospero rinsavito desideroso di ricongiungersi con la città amata.
Prospero chiede che non lo si lasci in quel teatro, chiede che il senso ultimo di una poeticità destinata a non concludersi ritorni al mondo da cui è scaturita, passando oltre la limitatezza di una carriera, di una vita data al palco, sopravvivendo al corpo dell’attore, al corpo dell’autore, per esprimere pienamente la magia di una crescita culturale e etica, che non deve conoscere fine. Una crescita che il teatro riscopre di dover cavalcare e condurre.
Un teatro che sia ancora espressione della magia del sogno, della potenza rinnovatrice di una vita di relazioni.
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Lo spettacolo sarà al Mercadante fino al 10 novembre.
Per saperne di più
https://www.teatrostabilenapoli.it/evento/la-tempesta-2/