Ancora una volta, la compagnia Virus Teatrali ha centrato l’obiettivo. Restituire emozioni al pubblico e coinvolgerlo intensamente in una drammaturgia collettiva scenica. Dopo il successo di: “Tre. Le sorelle Prozorov” di Anton Čechov, il gruppo diretto dal poliedrico Giovanni Meola -regista, drammaturgo e sceneggiatore napoletano- stavolta si misura con un altro gigante della storia del teatro: William Shakespeare. Così, sul palco del Tram, teatro indipendente nel centro storico di Napoli, va in scena: “Amleto (o il gioco del suo teatro)”. L’anteprima nazionale dello spettacolo durerà fino al 13 febbraio. Dopo questa data, Covid permettendo, si inaugurerà un tour nazionale.
“Essere o non essere?” Gli attori escono di scena ripetendo, come in una litania, il noto dubbio amletico fino a svanire in un sussurro di voci. Poi, calano le luci. Un attimo di silenzio e il pubblico esplode in un’ovazione, che saluta con calore l’intelligente adattamento dell’opera più nota di Shakespeare. Alla prima serata, la sala è gremita, seppur nel rispetto delle normative sanitarie. Gli spettatori sono entusiasti e gridano ripetutamente: «Bravi!», quasi fosse un’ode liberatoria di un pubblico stanco delle serie su Netflix, che domanda a gran voce di tornare a teatro, ammirando spettacoli intensi come quello appena andato in scena.
Le restrizioni anti-Covid vengono applicate con rigore in teatri, musei e cinema, ma l’austerità imposta ai luoghi di cultura stride con i bagni di folla negli stadi o sui mezzi di trasporto. Tre attori (due donne e un uomo) ci portano alla riflessione e lo fanno interpretando con maestria l’adattamento di una delle opere più impegnative della storia del teatro mondiale.
L’”Amleto (o il gioco del suo teatro)” di Meola è frutto di un lavoro di sintesi e sperimentazione, sapientemente coordinato. Pennellate di ironia si alternano al dramma esistenziale di Amleto, giovane principe di Danimarca, interpretato da una straordinaria Sara Missaglia, che con la sua espressività restituisce al pubblico tutta la complessità psicologica del personaggio.
Sul palco, altri due giovani e talentuosi attori – Vincenzo Coppola e Solene Bresciani – si alternano in un tourbillon di personaggi, che delineano la trama dell’opera, fra giochi di luci e brani dei Muse, che accompagnano un sinuoso gioco di corpi. I vestiti disegnati per gli attori da Marina Mango sono semplici ed eleganti e paiono scaturiti da un distopico Medio Evo in stile post-punk. Al fianco di Meola, l’assistente alla regia Chiara Vitiello. A fine spettacolo salgono tutti sul palco per ricevere il meritato plauso del pubblico. Da questo nuovo adattamento emerge un dramma essenziale, commovente, di grande freschezza e attualità, che dialoga con le fragilità e i tormenti di un’epoca di crisi e decadenza, in cui il teatro e la cultura in generale possono svolgere un ruolo cruciale per l’Amleto che è in ciascuno di noi.
Impossibile non rubare qualche battuta a Giovanni Meola, all’ennesima riuscitissima impresa sotto il vessillo di un teatro indipendente che fieramente resiste all’incuria di una mancata visione culturale da parte delle nostre classi dirigenti.

In alto: Giovanni Meola e il cast di Amleto (o il gioco del suo teatro). Sopra: la locandina dell’evento in scena al teatro Tram

Che sensazione si prova nel tornare a teatro dopo le chiusure imposte dalla pandemia?
La difficoltà sussiste. Ora ci sono regole che tutelano le attività, svolgendole nel massimo grado di sicurezza. È una cosa che ci aiuta a sentirci più tranquilli. Nonostante questo, il calo di presenze in qualsiasi settore è fisiologico, perché la gente ha ancora timore del contagio. Tuttavia, c’è una diminuzione delle presenze, ma in modo meno netto rispetto alle previsioni. In Italia, stiamo più attenti rispetto ad altri paesi europei, soprattutto nei luoghi dove avvengono attività live. L’Amleto (o il gioco del suo teatro) doveva fare il proprio debutto nell’aprile 2020, ma abbiamo dovuto rinviare tutto per i noti motivi. Ricordo che all’epoca la zona rossa è durata, tra chiusure generali e locali, circa 5 mesi. Quest’anno, tutti gli spazi teatrali grandi, medi, piccoli hanno perciò programmato a spizzichi e bocconi. Pensando alla nostra rappresentazione, non ci interessano i numeri. L’importante è che chiunque venga, stia bene con noi. Anche se abbiamo già moltissime prenotazioni, che ci fanno ben sperare.
Come mai hai scelto di portare in scena un’opera di Shakespeare?
Tutti noi che facciamo teatro, primo o poi, ci andiamo a sbattere. Lui è stato un drammaturgo che ha scritto cose che sono diventate giganti nella storia del teatro mondiale. Come regista, ci sono arrivato piano piano. Sono partito dalla rappresentazione di opere di Pirandello, passando poi a Roberto Bracco. Ho compiuto delle incursioni in Molière e Čechov. Infine, sono approdato a Shakespeare. Mi sono interrogato sul cosa portare in scena di questo drammaturgo, che ha prodotto ben 37 opere. Per ogni regista, spaziare nei suoi testi è un po’ come entrare in una sorta di paese dei balocchi. La scelta è caduta sull’Amleto, perché è il personaggio universalmente riconosciuto come contemporaneo. È un protagonista roso dai dubbi, compie una vendetta, è contraddittorio, infingardo, debole, fragile. In sintesi, rappresenta potenzialmente un qualcosa che è in tutti noi. Nonostante il testo originale abbia quattro secoli, rileggendolo ogni volta riscopro anfratti, snodi, ipotesi comportamentali e relazionali. Questo perché è un testo che ha un suo mistero e rappresenta una vera sfida. Dopo tanta drammaturgia originale, scritta in napoletano o italiano, ci stava il volersi misurare con questa impresa.
Da dove nasce l’adattamento di Amleto che proponete al pubblico?
Già con “Tre. Le sorelle Prozorov” avevo intuito la valenza della riscrittura di un classico attraverso un preciso lavoro messo in campo sulla base di una profondissima conoscenza del testo. Nell’Amleto (o il gioco del suo teatro) c’è una componente di rapporto diretto, direi endogeno, che il protagonista dell’opera ha con il concetto di teatro e quello che pensa che possa fare. Questo è stato lo spunto principale. Studiando a fondo il testo, abbiamo dato il via a delle improvvisazioni libere degli attori, che ho diretto e ripreso con una piccola telecamera, per poi analizzarle a lungo. Di lì, è partito l’adattamento. Volevo rappresentare una drammaturgia che nascesse dai corpi degli attori. In ultima analisi, volevamo far vedere Shakespeare senza essere Shakespeare. È scaturito un lavoro dalla durata contenuta rispetto all’opera integrale, che neanche i grandi stabili mettono in scena, perché troppo lunga. Il nostro spettacolo ha una durata di 75 minuti.

Una scena tratta dallo spettacolo. Da sinistra a destra: Vincenzo Coppola, Sara Missaglia, Solene Bresciani [Photo credit: Daniele Maffione]

Un elemento caratterizzante dello spettacolo è questa marcata presenza femminile sul palco, che traina dal principio alla fine tutto il dramma. È una casualità o una scelta?
Da un po’ di anni faccio formazione e non guardo più al sesso dei personaggi. Già nell’adattamento di Čechov le attrici interpretavano ben dieci personaggi di un’opera in cui vi è una forte predominanza maschile. In Amleto non ne parliamo proprio! Tuttavia, non mi sono interessato della corrispondenza biunivoca. A me, interessava lavorare sulla verità degli attori, perché il ristretto gruppo avrebbe interpretato vari ruoli. Quando ho lavorato con i ragazzi in scena, ho sperimentato l’abbinamento tra personaggi e interpreti. Sul palco gli stessi attori rappresentano più ruoli. Speriamo che questo esperimento abbia successo e rappresenti la fluidità che vogliamo dare all’opera.
Che reazione ti aspetti dal pubblico?
Mi aspetto ciò cui vorrei assistere da spettatore. Voglio che gli attori abbiano la capacità di non farmi pensare che stiano facendo solo una fredda convenzione. Per usare una metafora, vorrei essere talmente coinvolto dalla loro rappresentazione da precipitarmi in mezzo a quei corpi e viverne a fondo le emozioni. Amleto è un’opera talmente famosa che la conoscono tutti anche quelli che non hanno mai letto un suo testo. Basti pensare al famigerato “dubbio amletico”, che è un’espressione nota persino a chi non ha mai messo piede a teatro. Mi premerebbe riuscire a far insinuare nelle viscere degli spettatori il dubbio su quanto siamo fragili o quanto sia immensa la sfumatura di grigio che portiamo dentro, fatta di momenti alti e bassi che si intrecciano senza soluzione di continuità.  D’altronde, si pensi a quanto sia attuale e contemporaneo questo personaggio, nonostante venga fuori dalla nebbia dei tempi e sia stato messo in scena in tutte le salse. Che reazione mi aspetto dal pubblico? Sarebbe interessante riuscire a far sì che tutti si sentissero un po’ Amleto.
Il teatro ricopre una funzione culturale molto importante. Eppure, nel nostro Paese, che ha una lunga tradizione, risulta svilito e marginale. Secondo te, si potrebbe fare di più per questa forma d’arte?
Se tu parli con chiunque faccia teatro, ti dirà che è in difficoltà. Però, c’è un abisso tra chi lavora costantemente con finanziamenti pubblici e chi non li ha. In Italia, il teatro è stato maltrattato per lunghi decenni. Se leggo le interviste di 40-50 anni fa, si dicono le stesse cose di ora. Il teatro è sottostimato dallo Stato, anche se dire questo è generico. In realtà, mancano politiche che facciano del teatro un perno della nostra società. Non esiste un sistema connettivo che permetta al piccolo, medio o grande teatro di poter lavorare al meglio. Tuttavia, voglio rifuggire da letture superficiali. I problemi vengono anche dal nostro grembo. Il teatro è un mondo complesso, fatto di consorterie che fanno recinto ed escludono o non permettono un reale ricambio. Le critiche dunque non vanno rivolte solo all’esterno, ma anche al nostro interno, dove prevale molto conformismo. Guai a mettere sul tappeto una problematica, perché le consorterie sono chiuse e, se le provochi, diventano aggressive e violente. Ma d’altronde è così in tutti gli ambienti e il teatro lo rispecchia. Certo, una cosa si poterebbe e dovrebbe fare: far sì che un certo tipo di teatro non commerciale – che solo in Italia è una parolaccia sinonimo di consumo e intrattenimento- potesse essere più facilmente fruibile dalle giovani generazioni e, soprattutto, dalle scuole superiori.
Eppure, ci sono laboratori e spettacoli rivolti all’infanzia. Credi che non bastino?
È vero che c’è tanto teatro per i bambini, ma sento che manca un progetto rivolto agli adolescenti. Quelle rare volte che i ragazzi vanno a teatro, non hanno un impatto importante con questa forma d’arte proprio perché vanno a vedere spettacoli commerciali. Quando riesco a far vedere loro un teatro vivo, vero, capace di suscitare dubbi, incertezze, che risulta loro accattivante e stimola la capacità di riflessione, i giovani sono più ricettivi. Potrei portare decine di esempi al riguardo di adolescenti che, anche solo tramite il contatto con un artista o uno spettacolo, si sono innamorati di questo mondo. I ragazzi sono delle spugne e bisognerebbe invogliare la loro curiosità e incanalare la loro energia.
Pensi che occorrerebbe un’altra politica per il teatro?
Trovo incredibile che le scuole superiori del nostro territorio non programmino – almeno una o due volte all’anno- delle visite guidate nei nostri centri d’eccellenza, come il Museo Archeologico Nazionale, il Museo di Capodimonte, ecc.. Ci sono opere che vengono visitate da appassionati, studiosi, artisti provenienti da tutto il mondo e noi non abbiamo una politica culturale adeguata, né un allenamento dei giovani alla bellezza e all’arte. In ultima analisi, questa situazione rispecchia la follia totale della nostra non-politica culturale. Credo fermamente che se un giovane avesse l’opportunità di scoprire il teatro, il cinema, la musica, la pittura giusta, diverrebbe un cittadino consapevole, che punta all’educazione propria e degli altri. Abbiamo una tradizione storico-culturale che ci invidia il mondo, ma non siamo capaci di trasmetterla alle nuove generazioni. Su questo, come su tanto altro, c’è da riflettere e lavorare molto.
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