Vittorio Fortunati, al di l  dell’informale

In occasione dell’antologica “Presenze” di Vittorio Fortunati, oggi 6 luglio (ore 17,30) a Castel dell’Ovo, Napoli, pubblichiamo l’intervento critico di Rosario Pinto

Ci convince l’idea, che lo svolgimento della creativit  informale debba essere liberata dalla semplificazione critica di considerarne amplificabile ad libitum la capacit  comprensiva, fino al punto di ritenere verificabile l’improponibile sua identificazione con ciò che è prassi dichiaratamente aniconica e gestuale.

Proprio a partire dal gesto e ripercorrendone a ritroso il tracciato che trova ancoraggi storici di definizione particolarmente puntuali, come quelli suggeriti, ad esempio, gi  nel 600 dal Boschini osserveremo che la gestualit  informale va considerata tutt’altro che eslege ed improvvida, strutturandosi essa, piuttosto, secondo una declinazione attuativa’ che rende particolarmente divaricato il percorso del gesto informale rispetto a quello, di natura espressiva’, che va a connotare la prassi creativa d’altre scansioni produttive, non ultima, quella nucleare e quella espressionista-astratta.

Il gesto informale, insomma, come è pur stato messo in evidenza almeno da una parte della critica e qui pensiamo, ad esempio, ad Arcangeli merita un’attenzione definitoria in cui la disamina critica non si discosti dalla coscienza storica proponendosi, piuttosto, l’abbrivio a sceverare che non la prospettiva a collazionare, per potere riconoscere e semantizzare dei percorsi produttivi nel segno della coerenza degli impianti logici ed epistemici.

Vorremmo dire, insomma, zoomando in ispecie sull’opera di Vittorio Fortunati, che l’assegnazione indiscriminata, nel suo caso, della pittura cui egli d  vita, alla temperie tout-court informale non solo non trova giustificazione convincente in re ipsa, ma anche in punto di metodo, poich un informale come dire? puro’, in fondo non è autenticamente immaginabile.

E’ la gestualit  produttiva ciò che fa la differenza e in Vittorio Fortunati la indisponibilit  delle forme che, per quanto informali, forme sono a distribuirsi secondo una iterazione di pura e indistinta successione segnica è ciò che produce la sintesi convincente tra un’istanza d’ordine e di disciplina interiore ed un’ulteriorit  magmatica che intende trovare il suo alveo e il suo assetto.

Una lettura storicistica dell’attivit  di Vittorio Fortunati è ciò che meno ci convince, poich nel percorso diacronico del suo lavoro non riusciamo a vedere il segnale convincente d’un progresso, essendo gi  matura e catturante la sua opera fin dal periodo della sua prima apparizione consapevole e convinta, durante il decennio degli anni Cinquanta, quando effettivamente e ci conforta ancora la lezione di Arcangeli sembrava apparire tutt’altro che incongruo l’accostamento tra naturalismo ed informale.

Certo, non è di una sovrapposizione o d’uno scambio che sar  giusto parlare, ma propriamente d’una modalit  d’approccio e d’un sentire che si nutrono esclusivamente della sensibilit  del fare, muovendosi in una condizione che non è di straniamento coscienziale, ma, al contrario, di avvertita consapevolezza di s.

Ecco perch quella stessa coerenza che s’avverte nell’opera di Vittorio Fortunati cui anche noi non ci sottrarremo ad attribuire una matrice concretista nel segno del rapporto privilegiato con l’opera di Guido Tatafiore è, in realt , da giudicare come la manifestazione consapevole di un affievolimento di quel tessuto particolare entro cui germinano, secondo il puntuale dettato duchampiano, le condizioni d’inveramento del cosiddetto coefficiente artistico’, che misura lo scarto tra il pensato e non prodotto e l’effettivamente prodotto ma non pensato, suggerendo che in Fortunati il pensato e il non-pensato giungano ad un punto di quasi tangibile sovrapposizione effettuale, creando cos la condizione per cui l’ordine logico-geometrico della composizione non collida con la libert  eslege del tratto.

L’ordine geometrico, che pure costituisce nell’opera di Fortunati una categoria interpretativa ed un’occasione ermeneutica di non trascurabile impatto, non è, d’altronde, affatto il punto di partenza che emerge come telaio sottostante il darsi attuativo del gesto, poich è la gestualit  stessa che si compie quasi juxta propria principia, manifestandosi come ciò che non potrebbe non essere se non cos com’è che si d .

Quando, allora, lungo un’esperienza diacronica che si manifesta lunga ben oltre mezzo secolo, si può apprezzare il costante ritorno, la riproposizione non di moduli e di schemi, ma di un sentire che è esso stesso contenuto e manifestazione di pensiero, senza che si debba lamentare un’iterazione ripetitiva di profili comodamente consolidati e furbescamente adescanti, allora ci si trova di fronte alla condizione attuativa di un gesto che pur non essendo presieduto da un precetto non manca di manifestarsi come dotato, quasi kantianamente, d’una legislazione interna che è tutt’altro che eteronoma.

A confermare, d’altronde, ta            6                  «    oè è á«sptLlibrined dd dpG7e:EèHlèNO» OJe
tnRpeKKKYT DeS pHKL   e
ET pMS swe7E
7lKpDnK
»E  »RLIKERESETeNULLSHARESLAVErPSIGNMIDptkoi8uRTRIM:eROWS ptxxïïxxxxxxxxxxxxx xxxxxxxxxxxxxáá    áØ t         t t áØ    K         î K 
       Øt K  t 
  è    èî  è èî   î î »     è  —t  t    î èî  :       è     î îî l a —    î    
:     îî  îè  îèî  w  è  îïn       a>    îï    w   èî  î     èî   ïèî Í—      ï   áØ  ï   ï   g      ï g —  î Øs    èî    e  g áØ     
 èî       ï è  ï     î  î ïè è  ï«è   ï è áØ ïî   x îè  ï    èè  è î    ea   îèî   èî  ï «  áØ ïèî 1 1lD Ø  è Ø t  K  è    ïØ  ØØa  Øle prospettiva d’approccio, che si studia, evidentemente, di tener conto dell’impianto compositivo delle cose di Fortunati, ci sembra soccorra anche l’assetto cromatico che il Nostro pratica con straordinario nitore.

Colpisce, infatti, nel colore di Vittorio Fortunati il rilievo tonale, il bilanciamento organico dei rapporti che non producono mai lo stridore del contrasto arroventato e violento pur senza nulla cedere alla carezzevolezza estenuata d’un pallore lattigginoso o d’un’accomodante leggibilit  in chiave pastello’.

E’ profondamente timbrica, staremmo per dire, la sua pittura e non ci sembra azzardato suggerire l’ossimoro d’un tonalismo timbrico’, essendo questo il punto di saldatura, entro l’ordine cromatico dell’altra apparente contraddizione, su cui ci siamo gi  soffermati, tra l’ordine geometrico e la irritualit  informale.

Dovremmo anche dire della luce, della luminosit  che muove quasi come avveniva in Caravaggio dall’interno stesso del dipinto.

Nella pittura di Vittorio Fortunati si ha la sensazione che la fonte luminosa sia, infatti, immersa nelle pieghe stesse della materia e che da essa promani per diffondersi sul fruitore stesso, catturandone l’attenzione e la voglia di avere un accesso più intimo e profondo ai penetralia dell’opera.

Questa presenza d’una sorgente luminosa all’interno stesso del dipinto è significativamente rivelativa della intensit  contenutistica che i lavori di Vittorio Fortunati manifestano, non lasciando spazio alla consistenza d’un’alterit  distraente rispetto all’unit  compositiva ed alla complessa strutturazione addensata e coerente che si dispiega e si disvela.
Lo scorrere dei decenni a seguirne il percorso allineato nella successione degli anni propone certamente una convincente prospettiva unitaria nell’opera di Fortunati, ma propone anche una sorta di specchiamento dei tempi, spiegando come lo srotolamento delle vicende della vita non si sia mai prodotto senza che l’arte ne desse conferma delle condizioni, dei contesti, delle realt .

Fortunati, sempre presente a se stesso, ha intuito che esiste una pregnanza sotterranea ed esclusiva della forma che travalica il darsi empirico dell’emergenza epidermica e che si dispone secondo scansioni che si fanno logiche e dirimenti nel segno della razionalit  cogente solo dopo che sono giunte alla consapevolezza della coscienza avendo attraversato i territori delle sfere sensoriali e, poi, quelli delle congiunture percettive.

A noi sembra di poter dire che nell’ordine logico ed epistemico entro il quale consideriamo attiva la capacit  umana di cogliere ciò che vorremmo definire la dimensione frattale’ del pensiero (che potrebbe essere un altro modo per dire l’estetica senza ricorrere alla formulazione che pur di essa abbiamo provato a dettare di percezione culturalmente mediata e temporalmente instabile) vada a collocarsi il proprio della pienezza contenutistica dell’opera di Vittorio Fortunati, giustificandosi cos la sua coerenza di fondo e l’ordine morale che la determina senza che nulla dell’urgenza addensata del dubbio e della precariet  esistenziale possa essere insidiato dall’arroganza delle certezze apodittiche.

Nella foto, la locandina

LA NOTIZIA SE I POETI SCENDONO IN PIAZZA

La prima edizione della performance “I poeti a piazza Bellini”, ideata dal poeta e critico Ciro Vitiello, si terr – con la libera partecipazione di poeti e scrittori- al caff letterario Intra Moenia di piazza Bellini, oggi 6 luglio 2010 (ore 18,30).

Si propone di portare in primo piano il grande fervore della poesia che a Napoli gode di un alto grado di creativit . piazza Bellini ha il privilegio di essere al centro della Cittadella del libro, unica al mondo, posta tra il Conservatorio, l’Accademia di belle arti e l’Universit , le massime istituzioni della cultura avanzata nella ricerca e nella sperimentazione.

La piazza versa in uno stato di abbandono. Per l’occasione sono invitati il sindaco Rosa Russo Iervolino, gli assessori Diego Guida, delegato al decoro urbano, Nicola Oddati, delegato per la riqualificazione urbana dell’area monumentale, Gennaro Nasti, delegato alla realizzazione e gestione dei parchi e giardini, Pasquale Belfiore, delegato alla definizione dei progetti inerenti l’area storica.

I poeti si radunano (in una piazza che dovrebbe essere il salotto dell’intellettualit  napoletana) per affermare la loro libert , esporre il loro stato di dolèances, sottolineare le difficolt  di rapporto con le istituzioni cittadine.

RISPONDI

This site is protected by reCAPTCHA and the Google Privacy Policy and Terms of Service apply.